Dai due euro
per raggiungere in auto
il Monte Avaro al Lago di Cassiglio
È evidente: gli
enti locali hanno sempre meno soldi, inevitabile che nelle loro riunioni scatti la tentazione molto umana di
fare un ragionamento piuttosto semplice, signori, non c’è cassa per tenere in
ordine la strada verso l’Avaro e per fare manutenzione ai luoghi più
frequentati, dunque mettiamoci sopra un bel ticket. Da ora in poi, chi consuma
bellezza dovrà contribuire a mantenerla. Una mano sul cuore e una sul
portafoglio, prego. Ammettiamolo: non c’è niente di scandaloso. Gli
amministratori locali vanno capiti: l’invasione del turismo sulle montagne, ai
laghi, nei luoghi storici comporta consumo di questi beni, normale che i
consumatori paghino il biglietto per lo spettacolo. Per mantenere integro lo
spettacolo. L’idea non nasce certo sul Monte Avaro: è da anni che in Austria i
ciclisti pagano il pedaggio per scalare diversi passi, sulle nostre stesse
Dolomiti il dibattito è molto acceso, perché l’invasione biblica di certi
periodi implica inesorabilmente costi aggiuntivi e molti trovano necessario
istituire il casello d’ingresso. Sì, il problema del consumismo ecologico e
bucolico è decisamente serio, gli amministratori locali chiamati a gestirlo
vanno capiti.
Una volta
capiti loro, qualcuno però dovrà capire anche noi. Noi contribuenti. Non è per vittimismo italiota che ci
ritroviamo a dover ricordare - anche senza rinfacciare - quale livello record
tocchi il nostro contributo fiscale. La nostra obbligazione e il nostro impegno
per i beni collettivi sono già ai tetti massimi. È da questo presupposto, da
questo punto di partenza che allora dovremmo muoverci - noi e gli
amministratori pubblici - per decidere se sia giusto ficcarci le mani in tasca
anche per accedere a una strada di montagna o a uno spettacolo naturale. In
linea di principio, molti la fanno facile: si paga per entrare agli Uffizi e al
Cenacolo di Leonardo, perché non dovremmo pagare anche per goderci la visione
del Lago di Cassiglio e del Sassolungo? Andiamoci piano, però, con i facili
paralleli. C’è un limite preciso, ci deve essere. Altrimenti arriveremo al
punto di trovare equo e logico anche un ticket sull’aria che respiriamo.
Non
dimentichiamolo: un certo patrimonio naturale - boschi, pascoli, sentieri,
valichi, vedute panoramiche - è di per sé ad azionariato popolare. Cioè di tutti, imprescindibilmente
di tutti. Che poi ci siano costi di manutenzione non può cambiare la natura di
questo possesso. Per i costi di manutenzione sono già previste le voci del
grande salvadanaio pubblico, cui ciascun contribuente concorre ogni anno in
misura proporzionale. Ma questi fondi non bastano più, urlano affranti i
gestori della grande bellezza collettiva. Benissimo, anzi malissimo. Il
problema però non può ricadere di nuovo, come un sadico e perverso automatismo,
su chi ha già dato. Su chi una domenica vuole semplicemente usufruire
dell’angolo di mondo che ci siamo misteriosamente trovati a portata di mano
dall’origine dei tempi.
Fatemi pagare
la seggiovia, che è una comodità e un optional, ma non la strada per arrivarci.
Chiedetemi se mai un contributo
libero e volontario, multatemi se mi muovo come un vandalo, ma non imponetemi
per decreto anche la tassa sul creato. C’è una zona verde e azzurra - dove
l’anima respira, dove tutto è libero e gratuito per legge naturale - che
l’avidità del fisco deve evitare. Se ne stia fuori, giri alla larga. Almeno lì,
dove andiamo proprio per dimenticare.
Cristiano Gatti – Corriere della Sera 22 giugno 2015
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