Strambotti di Ariberto

La dòna del zöch - Oltre il Colle Zorzone
Storie e leggende della Valle Brembana
 


La donna del gioco è un personaggio che ha popolato la fantasia di intere generazioni di bergamaschi, imperversando un po' dappertutto con i suoi scherzi impertinenti e i giochetti astuti con i quali si divertiva alle spalle dei malcapitati che avevano la sventura di incontrarla. I comportamenti e le azioni attribuite a questa fantasiosa creatura variano a seconda delle zone, ma alcuni aspetti del carattere e del portamento sono comuni a tutte le tradizioni che la riguardano. In genere, viene rappresentata come una figura alta e allampanata, quasi diafana, con i capelli costantemente arruffati, vestita di lunghe gonne nere e con uno scialle a larghe frange buttato alla meglio sulle spalle. Talvolta era accompagnata da una quarantina di cani bianchi o da sette gatti, ciascuno con appeso al collo un piccolo sonaglio. Poco avvezza ad agire alla luce del sole, si scatenava al primo apparire del crepuscolo e diventava la regina incontrastata della notte. Allora la sua vita si trasformava in un frenetico girovagare sopra i monti e le vallate più impervie, che risaliva con una agilità e una leggerezza da lasciare stupiti. E poi, dall'alto delle vette si allungava prodigiosamente fino al cielo, tentando di giocare con le stelle e di fare l'altalena con la falce della luna calante.

Era un continuo vagabondare in preda a un'indicibile inquietudine, mitigata da rare pause di moderato entusiasmo che esprimeva a modo suo, con sommessi gridolini e stridule risate. Si trasformava continuamente e si dilatava a dismisura, crescendo fino a perdersi nell'atmosfera. Non era facile osservarla, ma ai più mattinieri capitava a volte di notarla, quando le ombre della notte cedevano il passo alla tenue luce dell'aurora, mentre si apprestava a ritirarsi per riposare in attesa che il giorno ultimasse il suo turno. Quanto poi a rivolgerle la parola, nessuno se n'era mai azzardato, perché al temerario che avesse osato farlo sarebbe arrivato in testa un mastello di acqua gelida.

Questo fino a quando un nottambulo di Zorzone di Oltre il Colle, uscito dall'osteria sul far dell'alba, in preda a una solenne sbronza, si sentì rivolgere questa domanda a bruciapelo: "Per chi éla la nòcc?". Erano parole uscite dalla bocca della dòna del zöch, le prime che un essere umano avesse avuto la ventura di ascoltare. L'ubriaco, reso ardimentoso dall'alcool, ebbe la prontezza di spirito di rispondere: "Per me, per te, per chi che i va miga 'n tùren del dé!". Quella risposta fu la sua salvezza, la misteriosa creatura se ne volò via sghignazzando, lasciando di stucco l'inebetito interlocutore che aveva corso il rischio di essere spinto e sbatacchiato per terra dopo aver ricevuto una buona dose di sonanti ceffoni e una valanga di improperi.

Ma sorte peggiore toccò a un tale di Serina, pure lui alquanto alticcio, che la incontrò nel bel mezzo di un ponticello alle prime luci del giorno: ritemprata dall'aura della notte, la donna del gioco era bellissima, tutta sfavillante in un vestito di pizzo e di veli finissimi e trasparenti che le dava un non so che di malizioso e seducente. Questa figura, così allettante e all'apparenza disponibile, fece inebriare ancor di più il buonuomo che pensò subito di correre ad abbracciarla per assaporarne il dolce tepore, ma appena si fu avvicinato, la strana creatura cominciò a crescere vertiginosamente, allungando le gambe, su su fino al cielo, diventando al contempo come l'aria, diafana e impalpabile.

Il malcapitato, che si era slanciato verso di lei a braccia tese, non poté fare altro che passarle sotto le gambe divaricate, in preda a un indicibile spavento, e poi scappar via, mentre la regina della notte se la rideva agitando a mo' di mulinello un paiolo pieno di monete d'oro e lasciandone cadere ogni tanto una manciata sopra l'ignaro fuggitivo come fossero una preziosa grandinata. La dòna del zöch era dunque assai dispettosa, come ben sapevano le lavandaie che, quando si recavano alla fontana per fare il bucato, rischiavano di essere prese di mira dai suoi scherzi impertinenti. La si poteva incontrare infatti presso la fontana pubblica o in riva al torrente, in tutti quei posti dove le donne, affaccendate attorno ai mastelli pieni d'acqua, lavavano i loro modesti panni con le mani e con la lingua.

Non era raro che, mentre erano intente a tali operazioni, venissero improvvisamente investite da grandi spruzzi d'acqua e bagnate da capo a piedi, mentre l'aria risuonava di striduli risolini di soddisfazione. Capitava che qualche donna durante la notte lasciasse il suo mastello fuori dalla casa con il bucato in ammollo nella lisciva. Era un invito a nozze per la dòna del zöch: a ora tarda tutta la famiglia veniva svegliata da strani rumori, allora, con precauzione e con un certo timore, i mariti si affacciavano alla finestra, non di rado imbracciando un fucile. Ebbene, la dòna del zöch era lì, dentro il mastello, che lavava i suoi panni, sguazzando nell'acqua, felice come una bambina alle prese con il suo primo bucato. Guai ad importunarla! Avrebbe reagito come successe una volta a Zorzone, che distolta dalla sua occupazione, prese a calci il mastello con tale veemenza da farlo volare giù fino in fondo all'orrido della Val Parina.

A proposito di bucato, una donna di Oltre il Colle che doveva recarsi nottetempo a Serina, nell'attraversare un torrente, scorse una figura scura china sull'acqua, intenta a lavare la sua gonna nera. Mentre era incerta se proseguire la sua strada o chiedere a quella persona il perché della sua insolita presenza in quel luogo, si sentì rivolgere la solita domanda: "Per chi éla la nòcc?". La donna, benchè spaventata, riuscì a risponderle: "Per me, per te, per chi che i va miga 'n tùren del dé!". Tanto bastò per placare la misteriosa creatura che si allontanò brontolando: "Fortüna che ta m' l'è cüntàda giösta, perché se no, poarèta te!".

Gli uomini la temevano e quando dovevano andare in giro la notte, fossero soli o in gruppo, non mancavano di recitare una preghiera per le anime del Purgatorio, però va detto che in cuor loro avevano un certo desiderio di incontrare quella donna così insolita e diversa dalle loro compagne, semplici e senza grilli per la testa. Una donna stramba ma che, diciamolo pure, a parte qualche burla pazzerella non aveva mai fatto del male a nessuno, anzi, forse quella sua impertinenza era frutto del desiderio inappagato di sfuggire alla solitudine alla quale era stata condannata senza speranza chissà da quanto tempo. Peccato che il frastuono della vita moderna ci abbia adesso tolto il gusto un po' elettrizzante di incontrare quella creatura, così bella, così misteriosa.

Tratto da “Antiche storie brembane” - http://www.leggende.vallebrembana.org/zoch1.html
 
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Il flautista di Concalin

La tornata elettorale
s’è conclusa senza il “botto”,
c’è chi scende e c’è chi sale, 
c’è chi esce malridotto.

Il fantino della valle
ha spremuto i suoi destrieri,
con la biada nelle stalle,
li ha elevati a “cavalieri”.


Ringraziando per l’onore
di cotanta gentilezza,
ora acclaman con ardore
pur avendo la “cavezza”.


Il “meschin” non c’è l’ha fatta
e si asciuga il gran sudore,
guarda in fondo alla “pignatta”:
farà ancor l’oppositore !


Il “figuro”, tutto in nero,
imprecando al suo destino,
come il nostro “calimero”
pensa d’esser clandestino.


Or finita la baldoria,
ma scontato era il finale,
archiviata questa storia
si ritorna sul normale.


Il “flautista” avea suonato
e i topini l’ha seguito,
il passato è stato, è stato
c’è chi ha pianto, chi gioito.


Alla fin della faccenda,
o felice o sconsolato,
col destin non se la prenda,
c’è chi ha preso, chi ha donato.


Ariberto il menestrello,
che pensava d’emigrare,
ci ripensa, viene il bello,
c’è "materia" per restare.


Ariberto Il Menestrello

8 maggio 2012




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La leggenda della vecchia Annerot e dei botton d’oro






Questo non è uno "srambotto" ma una storiella su cui riflettere !


Un uomo in giacca e cravatta è apparso un giorno in un villaggio. In piedi su una cassetta della frutta, gridò a chi passava che avrebbe comprato a € 100 in contanti ogni asino che gli sarebbe stato offerto. I contadini erano effettivamente un po' sorpresi, ma il prezzo era alto e quelli che accettarono tornarono a casa con il portafoglio gonfio, felici come una pasqua. L'uomo venne anche il giorno dopo e questa volta offrì 150 € per asino, e di nuovo tante persone gli vendettero i propri animali. Il giorno seguente, offrì 300 € a quelli che non avevano ancora venduto gli ultimi asini del villaggio. Vedendo che non ne rimaneva nessuno, annunciò che avrebbe comprato asini a 500 € la settimana successiva e se ne andò dal villaggio. Il giorno dopo, affidò al suo socio la mandria che aveva appena acquistato e lo inviò nello stesso villaggio con l'ordine di vendere le bestie 400 € l'una. Vedendo la possibilità di realizzare un utile di 100 €, la settimana successiva tutti gli abitanti del villaggio acquistarono asini a quattro volte il prezzo al quale li avevano venduti e, per far ciò, si indebitarono con la banca. Come era prevedibile, i due uomini d'affari andarono in vacanza in un paradiso fiscale con i soldi guadagnati e tutti gli abitanti del villaggio rimasero con asini senza valore e debiti fino a sopra i capelli. Gli sfortunati provarono invano a vendere gli asini per rimborsare i prestiti. Il corso dell'asino era crollato. Gli animali furono sequestrati ed affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere. Nonostante ciò il banchiere andò a piangere dal sindaco, spiegando che se non recuperava i propri fondi, sarebbe stato rovinato e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti fatti al Comune. Per evitare questo disastro, il sindaco, invece di dare i soldi agli abitanti del villaggio perché pagassero i propri debiti, diede i soldi al banchiere (che era, guarda caso, suo caro amico e primo assessore). Eppure quest'ultimo, dopo aver rimpinguato la tesoreria, non cancellò i debiti degli abitanti del villaggio ne quelli del Comune e così tutti continuarono a rimanere immersi nei debiti. Vedendo il proprio disavanzo sul punto di essere declassato e preso alla gola dai tassi di interesse, il Comune chiese l'aiuto dei villaggi vicini, ma questi risposero che non avrebbero potuto aiutarlo in nessun modo poiché avevano vissuto la medesima disgrazia. Su consiglio disinteressato del banchiere, tutti decisero di tagliare le spese: meno soldi per le scuole, per i servizi sociali, per le strade, per la sanità ... Venne innalzata l'età di pensionamento e licenziati tanti dipendenti pubblici, abbassarono i salari e al contempo le tasse furono aumentate. Dicevano che era inevitabile e promisero di moralizzare questo scandaloso commercio di asini. Questa triste storia diventa più gustosa quando si scopre che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un isola delle Bermuda, acquistata con il sudore della fronte. Noi li chiamiamo fratelli Mercato. Molto generosamente, hanno promesso di finanziare la campagna elettorale del sindaco uscente. Questa storia non è finita perché non sappiamo cosa fecero gli abitanti del villaggio. E voi, cosa fareste al posto loro? Che cosa farete?

Mi pongouna domanda: "Chi sono gli asini?"

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Lo sceriffo della valle


Sulle strade della valle,
mascherato con un casco,
tra Serina e Oltre il Colle
puoi incontrar l’uomo del bosco.

Cavalvando un motorone

dei lontan anni quaranta,
lui controlla le persone
come fossimo ad Atlanta.

Pistolone alla cintura,

tra il giubbetto e i pantaloni,
occhio serio e faccia scura
fa rombar i suoi pistoni.

Lo Sceriffo vien chiamato

senza stella sopra il petto,
ma da tutti vien schivato
col suo fare un po’ sospetto.

Nei “ristori” della Conca

c’è chi ride e lo canzona,
ma lo scherno lì si tronca
al rumor della “trombona”.

Tutto quello che succede

lui l’annota su ‘n diario,
e tornato alla sua sede
scrive un post immaginario.

Firma: Carlo, Mario, Nasto

pr far credere al lettore,
qualche amico ancor rimasto,
che lui è “Amministratore”.

Sopportiamolo in silenzio,

bene o male il tempo passa,
e anche lui avrà il suo spazio,
là nel prato della Plassa.

Un moderno cavaliere

con cappello a larghe tese,
pantaloni a borchie nere
che rimira il “suo Paese”!

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L'originale e la "copia"

Il “Tacchino” della valle


Nella valle, c’era un tempo,
un signore originale
che prendeva ogni commento
come un fatto personale.

Registrava su un libretto,
che teneva in un “palmare”,
ogni termine sospetto
riferito a un familiare.

Come un lupo quando ha fame
che cammina a piè felpato,
lui indagava sulle “trame”
che colpivano il casato.

E poiché era meschino
senza avere del coraggio,
prese il nome di “Tacchino”
animal d’alto lignaggio.

Nella notte, come un lupo,
gli altri Siti controllava
e con fare torvo e cupo
la vendetta preparava.

Riportava sul “palmare”
dai commenti solo “brani”
con lo scopo di assegnare
premi e coppe a piene mani.

Ma nessuno lo leggeva,
controllate sul palmare,
e il cervello gli “friggeva”
come un piatto “misto mare”.

Non sapendo come fare
per avere più attenzione
si propose d’inventare
un evento a sensazione.

Dilettante e pasticcione
si confuse col “progetto”
e tra tanta confusione
fece nascere il sospetto

che l’evento tanto atteso
come un piccolo attentato
dalla gente fu compreso
come un “botto” anticipato

per error del costruttore
che prepara lì sul posto,
per il “Santo Protettore”,
il final di Ferragosto.




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Questa è una leggenda, dimenticata anche dai nostri nonni, che narra di una vecchia e cattiva signora, e del suo fido consigliere, che abitavano in una caverna alle pendici di un monte chiamato Alberg.
Ve la voglio narrare.
Molti, molti anni orsono, in un antro buio e umido, alle pendici dell’Alberg, abitava una vecchia bitorzoluta , di nome Annerot,  sempre accompagnata dal suo fido servitore e consigliere, che cavalcava un nero destriero metallico tuonante.
Il monte, con le sue alte guglie rocciose, era circondato da profondi precipizi alla base dei quali verdeggiavano alte  abetaie frammezzate da rigogliosi cespugli di rododendri e gigli martagoni che ingentilivano le asperità delle vette sovrastanti.
Invidiosa per le bellezze del paesaggio che la circondavano e per i montanari del luogo, accompagnati da amici e conoscenti, che salivano i tortuosi sentieri per ammirare le bellezze della zona, la vecchia bitorzoluta Annerot cercava in tutti i modi di spaventarli con spaventosi ululati e con sassaiole che mettevano in apprensione tutti quelli che osavano avventurarsi nei tranquilli boschi.
Anche i numerosi caprioli che brucavano la tenera erba dei pascoli nell’udire quelle urla strazianti e il rumore dei sassi che rotolavano a valle, scappavano impauriti e tremolanti nascondendosi nel fitto del bosco.
In alcune notti invernali, le urla si udivano anche a valle, nelle case delle contrade e, nelle stalle, le mucche terrorizzate smettevano di dar latte.
Gli abitanti delle contrade a valle sussurravano tra loro, nelle serate invernali trascorse nel caldo delle stalle, che su quel monte si era insediato Lucifero, scacciato persino dagli altri diavoli dell’Inferno per la sua cattiveria. Assieme a Lucifero avevano pure scacciato il suo fido consigliere, tanto malevolo e vendicativo da incutere paura agli stessi diavoli infernali.
Ma la loro principale preoccupazione era la vicenda della mancanza di latte, tanto più grave perché impoveriva anche il commercio della zona e toglieva loro il magro guadagno dell’unica attività invernale.
Infatti i commercianti della pianura che salivano con i muli prima dell’alba per riempire gli otri di latte e rivenderlo nei loro negozi, nella parte più stretta e angusta della valle s’imbattevano in un diavolo, vestito di nero che cavalcava un destriero metallico dagli occhi gialli , accompagnato da tuoni e scoppi, e che urlava frasi minacciose e incomprensibili  Impauriti da tale demonio evitavano quella vallata e si rifornivano altrove.
Gli abitanti delle contrade non sapevano cosa fare, la carestia cominciava a mietere vittime tra le persone più anziane, i bimbi dimagrivano a vista d’occhio ed anche il bestiame deperiva continuamente mettendo in seria discussione il magro capitale dei contadini.
Una sera, gli abitanti si riunirono nella stalla più grande, vincendo la paura dei possibili malefici della vecchia, per decidere come poter risolvere la sempre più pesante situazione. Molte discussioni, molte idee, ma poco realizzabili e alla fine si ritrovarono allo stesso punto di partenza: la paura aveva avuto il sopravvento sulla fame.
Il silenzio era calato nella stalla, gli uomini si carezzavano la barba, le donne stringevano al petto i piccini che chiedevano cibo: la disperazione si toccava con mano.
Nel silenzio una voce dal fondo della stalla attirò l’attenzione dei presenti. Era quella di un giovane che era sceso in pianura per vendere al mercato due caprette: “So di un Mago che conosce gli artifizi per sconfiggere streghe e malocchio !”.  “Dovremmo farlo salire in valle e chiedergli di usare i suoi poteri per togliere la “pestilenza” che ci affligge”.
Decisero, tutti insieme, di verificare quest’ultima possibilità e lo chiamarono.
Il Mago salì a dorso di mulo l’impervio sentiero che conduceva all’antro della vecchia Annerot; si nascose dietro gli ultimi cespugli al limitare del bosco e osservò con attenzione e pazienza la situazione. Poi, togliendoli dalla sua bisaccia, pose tanti specchietti, come piccoli occhi, attorno all’ingresso dell’antro in modo tale che, al sorgere del sole, i raggi fossero indirizzati all’interno della grotta illuminandola a giorno e si addormentò tranquillo.
All’alba del mattino successivo era nuovamente sveglio a osservare l’effetto del suo sortilegio. Come i raggi del sole nascente colpirono gli specchietti approntati la sera precedente, questi s’illuminarono come bottoni dorati e riflessero una forte luce nell’antro della vecchia.
Svegliata da tanto chiarore e abbagliata dall’intensa luce, la vecchia Annerot chiamò terrorizzata il suo servitor consigliere, insieme balzarono sul cavallo metallico tuonante, uscirono velocemente dall’antro senza accorgersi del profondo precipizio accanto e precipitarono urlando sul fondo irto di rocce acuminate.
Il Mago soddisfatto del suo lavoro, risalì sul dorso del mulo e fece ritorno alle contrade, dimenticando gli specchietti che ancora riflettevano una luce dorata sull’Alberg e che dai valligiani furono chiamati “botton d’oro”, fiori che ancor oggi nascono nei pascoli alpini.
Il mago fu festeggiato assieme al giovane che aveva avuto l’ingegnosa idea d’invitarlo; le mucche ripresero a far latte e lungo la mulattiera che saliva dalla pianura tornarono a transitare i commercianti con i loro muli. La valle era rinata e della vecchia Annerot e del suo cattivo consigliere si perse la memoria.
Per molti anni questa leggenda fu  raccontata nelle fredde sere invernali, oppure quando il vento fischiava ululando tra le abetaie, nelle stalle della valle poi col passare del tempo venne dimenticata.
La riscoprì su un vecchio e polveroso manoscritto Ariberto il menestrello.



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Il leone smascherato



Il leon della pineta,
tutto solo e senza meta,
sta ululando come un cane
perché perde il suo reame.


Per cercar di rimediare
pensa pure di barare.
S’è nascosto i suoi unghioni
dentro un paio si scarponi,


ha dipinto la criniera
con Acrylic bianco cera,
pure un nome s’è inventato
per nasconderne il casato.


S'è firmato Franco Beri,
pubblicando i suoi pensieri,
e lui pensa che gli allocchi,
come il pesce all’amo abbocchi.


Ma non sono tutti merli,
che si prendon pei fondelli,
tosto lavano il leone
e gli tolgon lo scarpone.


E’ finita in gran risata
el leon la gioppinata.
Il reame s’è squagliato
e dai lazzi è bersagliato.


Come dice il vecchio saggio
senza cuor non c’è coraggio,
e non basta esser leone,
per finir come un co….ne!  


Ariberto il menestrello

Maggio 2012



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