Leggende Bergamasche

Il mandriano spergiuro


Questa leggenda viene raccontata ancora oggi in varie versioni, leggermente diverse tra loro, dagli anziani di Oltre il Colle, Serina e Roncobello, ma anche di Gorno e Valcanale. Ciascuna di queste località indica anche il luogo preciso che fu teatro della vicenda: per quelli di Oltre il Colle si tratta dei pascoli del monte di Zambla, per i Serinesi è il monte Grem e per quelli di Roncobello, Gorno e Valcanale l'alpeggio del lago Branchino. Allo stesso modo, secondo gli abitanti di Oltre il Colle, il mandriano spergiuro, protagonista della leggenda, proveniva da Gorno, mentre a sentire quelli di Serina era di Sorisole e, per gli abitanti di Roncobello si trattava di un certo Valle di Serina, mentre per quello di Gorno e Valcanale il bugiardo era valbrembanino. 
Questa multiforme versione di una storia pressoché identica, ne denota la popolarità tra le popolazioni a cavallo tra le valli Brembana e Seriana e relative diramazioni. Per non far torto a nessuno, ne viene qui esposta una sintesi che assomma le varie versioni, lasciando volutamente indeterminati il paese e i personaggi. Or dunque, era sorta in quel paese una disputa accanita circa i diritti di possesso di un alpeggio. 
La maggioranza dei capifamiglia riteneva che tale alpeggio fosse di proprietà comunale e quindi a disposizione di tutti. Non così la pensava un vecchio mandriano, che era forestiero e il cui arrivo in paese, parecchi anni prima, aveva scatenato la discordia, in quanto egli vantava su quel pascolo diritti di esclusiva proprietà. Diritti, osservava, risalenti ai suoi antenati e tramandati in eredità di padre in figlio, fino a lui stesso. Una serie di processi, celebrati davanti al vicario di valle, non erano valsi ad appurare chi fosse il legittimo proprietario, di conseguenza, in mancanza di uno specifico divieto della pubblica autorità e facendosi scudo dei suoi asseriti diritti, il mandriano portava ogni anno regolarmente la sua mandria sull'alpeggio, sordo alle lamentele dei compaesani, i quali dal canto loro non erano ormai più disposti a subire tale situazione, considerandola un vero e proprio sopruso.

E così, ogni anno, assieme alla stagione dell'alpeggio si riaccendevano le dispute e non di rado accadeva che qualcuno passasse alle vie di fatto. Allora tra il mandriano prepotente, spalleggiato da figli e parenti e da certi vicini che traevano vantaggio dall'essere dalla sua parte, e qualcuno dei suoi avversari si scatenavano risse tremende, condite con pugni e bastonate. Una siffatta situazione non poteva più continuare e le autorità, ben consapevoli che presto ci sarebbe scappato il morto e desiderosi di risolvere una volta per tutte la complicata questione, deliberarono di invitare i contendenti ad una solenne cerimonia pubblica di giuramento, durante la quale si sperava che sarebbe finalmente emersa la verità. 
La cerimonia ebbe luogo una domenica mattina, poche settimane prima dell'avvio della stagione dell'alpeggio: i contendenti, le rispettive famiglie e quasi tutta la popolazione si riunirono attorno alla baita del pascolo della discordia. Assieme a loro giunsero lassù i consoli e i consiglieri del paese, il vicario di valle, in qualità di giudice supremo e i rappresentanti del governo inviati dal podestà di Bergamo, accompagnati da un drappello di soldati col compito di sedare non improbabili tumulti. 

C'erano poi il parroco del paese e un canonico, mandato dal vescovo allo scopo di attestare la validità del sacro giuramento, infine un notaio, con il compito di redigere il relativo atto formale. Celebrata la messa, le autorità civili e religiose si disposero attorno all'altare e invitarono i contendenti a giurare davanti al crocifisso, dopo averli severamente ammoniti sui gravi castighi civili e religiosi riservati agli spergiuri. Nessuno dei mandriani del paese ebbe però il coraggio di pronunciare la solenne formula attestante il loro diritto di proprietà, infatti non avevano alcuna certezza di tale diritto, non disponendo di prove ufficiali e inconfutabili.

Fu poi la volta del vecchio forestiero il quale, tra l'incredulità degli astanti, pronunciò a voce alta e sicura il seguente giuramento: "Giuro davanti a Dio che la terra che ho sotto i piedi appartiene a me e alla mia famiglia". Alle parole seguì un attimo di silenzio, poi gli altri mandriani scoppiarono in urla minacciose all'indirizzo del vecchio, che fu accusato di spergiuro, e le forze dell'ordine riuscirono a stento a trattenere quella folla inferocita che tentava di farsi giustizia da sè. Ma ormai la questione era chiusa: le autorità civili e religiose sancirono ufficialmente e concordemente che il pascolo conteso doveva essere assegnato definitivamente al vecchio mandriano, il cui giuramento non lasciava adito a dubbi. 
Così fu, e da quel momento il mandriano poté far pascolare le sue bestie su quel terreno, godendo della protezione della legge. Ma, se all'apparenza, ostentava sicurezza e spavalderia, la sua coscienza era agitata da un sordo rimorso. Infatti il suo giuramento era stata una vera e propria truffa e, se di fronte agli uomini tutto sembrava all'apparenza ineccepibile, dentro di sé egli era consapevole di essersi meritato il castigo di Dio. Castigo che non sarebbe tardato ad arrivare, considerata l'età dello spergiuro. Era infatti accaduto che il giorno del giuramento il mandriano, mal consigliato dalla moglie, era entrato nel suo orto, aveva preso due manciate di quella terra e l'aveva messa nelle sue scarpe, sotto i piedi.
Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe la punizione che si meritava. 
E di che natura fosse la penitenza lo appresero tutti coloro che negli anni seguenti ebbero la ventura di passare dalle parti dell'alpeggio durante un temporale. Allora potevano vedere l'anima dello spergiuro vagabondare per la montagna in groppa a un cavallo di fuoco che scalpitava sinistramente tra lampi e tuoni in un turbine di vento e grandine. A ogni passaggio il dannato mandriano urlava un ordine lugubre e disperato: "Laghì sta i tèrmegn! La róba di óter la fa póca zuàda!". 
Manco a dirlo, più nessuna mandria poteva essere portata su quell'alpeggio perché le mucche, in preda a un'indicibile inquietudine, si rifiutavano di pascolare, emettevano muggiti lamentosi e non davano una goccia di latte. Nemmeno le ripetute benedizioni impartite da vari sacerdoti seppero tener lontana quell'anima dannata, che continuò per anni a seminare il panico tra i montanari. E anche oggi può capitare, in certe notti di tempesta, di sentire su per la montagna lamenti umani mescolati al brontolio dei tuoni mentre guizzi di luce, simili a lampi, corrono qua e là sopra la distesa dei pascoli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani - Ferrari, Clusone, 2001

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«La spada nella roccia» sulle Orobie?
C’è davvero, sulle rive del Barbellino
 
 
Svelato il mistero dopo la «leggenda» rilanciata sul web: l’ha realizzata un guardiacaccia sulla scia della leggenda delle Cascate del Serio.
Che ci fa una spada nella roccia sulle Orobie? Il quesito postato sul gruppo Facebook «Orobie Trekking» da un’escursionista sarda, ha consentito in questi giorni di svelare il «mistero» della spada in ferro conficcata in una roccia in riva al lago Barbellino vicino al Rifugio Curò. A posizionarla è stato Matteo Rodari, 38 anni di Valbondione, guardiacaccia della locale riserva faunistica volontario del Soccorso Alpino.
«Nessuna volontà di richiamare la leggenda dei cavalieri della Tavola Rotonda - sottolinea - semplicemente un’idea venuta dall’iniziativa “Sentieri creativi” promossa in estate dal Cai e dedicata ai giovani artisti. Ho pensato di creare un indiretto richiamo alla leggenda delle Cascate del Serio e coinvolto mio padre Modesto, che da sempre esprime la propria arte con dipinti e sculture».
La leggenda narra che nella zona del Barbellino vivesse una dama, innamorata perdutamente di un giovane pastore. Questi era però fidanzato con una ragazza locale. La dama la fece rapire, imprigionandola nel suo castello in quota. Le lacrime della fanciulla furono incessanti, al punto da formare rivoli impetuosi che travolsero il castello, formando le cascate.
Da L'Eco di Bergamo - 1 novembre 2016 
 
 
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La caccia-selvatica o caccia-morta

 

Una leggenda assai popolare nella Bergamasca è quella della “caccia-selvatica” o “ caccia-morta” che accumuna Costa Seria a Valgoglio.
 
In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati. Erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un'incessante quanto sterile caccia.
 
-Si sussurra che a Costa Serina un viandante, imbattutosi in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l'avesse mai fatto; rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale l'aveva salvato il suo parroco, consigliandogli di riportare di notte l'ingombrante reperto sul luogo dell'incontro con la caccia-selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, con terrore, riuscendo a cavarsi d'impaccio.
 
-Molto simile è il racconto della caccia-morta a Valgoglio, dove si dice che una donna osservando quei dannati in corsa sfrenata espresse una bizzarra richiesta: "Portatemi un po' della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini". Fu subito accontentata; il mattino dopo trovò appesa fuori della sua casa una gamba umana. Impaurita, la donna corse a raccontare l'accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel pieno della notte la caccia-morta tornò e dalla canea vociante si alzò un grido d'oltretomba, rivolto proprio a lei: "Buon per te che sei in mezzo all'innocenza, altrimenti l'avresti pagata cara per aver osato parlare alla caccia-morta".
 
Tratto da http://www.facoetti.com/index.php/storie-di-personaggi/274-leggende-bergamasche
 
 
 

 
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La leggenda dei mercanti di neve


Valleve - fotografia di Vallebrembanaweb
 
 
La leggenda è molto antica e la tradizione vuole che si attribuiscano le abbondanti nevicate ai seguenti Santi, purtroppo quest'anno la "tradizione verrà smentita dalle previsioni meteorologiche.
San Mauro (15 Gennaio) protettore di  tutti gli ammalati e di quelli che corrono seri pericoli     San Antonio Abate (17 Gennaio) protettore degli animali, viene festeggiato a Vendrogno con la benedizione degli animali, il falò e la “busecca” (trippa in brodo con verdure), a Bergamo con la tradizionale vendita di "biligocc", collane di castagne essiccate e affumicate in capanni appositi.
Poi abbiamo San Sebastiano (20 Gennaio) patrono di Comasira appunto, il giovane martire milanese viene raffigurato legato e trafitto da frecce. Santa Agnese (21 Gennaio) patrona delle giovani dei giardinieri e degli ortolani, Santa Agata (5 Febbraio) viene festeggiata a Tremenico in Valvarrone. San Vincenzo (22Gennaio) patrono di Ombriaco molto sentito e festeggiato con fuochi pirotecnici. San Biagio (3 Febbraio) protettore della gola patrono di Bindo in Valsassina.
A questi Santi si attribuiva anche l’arrivo della primavera con il proverbio (San Sebastian con la viola in man, viola o non viola dell’inverno sem fora) (San Sebastiano con la viola in mano, viola o non viola dall’inverno siamo fuori). Ma questo detto nel contempo si contrappone con quest’altri: ( San Maur un frec de diaul, Sant Antoni un frec de demoni, San Sebastian un frec de can) (San Mauro un freddo del diavolo,San Antonio un freddo del demonio, San Sebastiano un freddo da cani) anche perchè i Santi elencati compaiono sul calendario dopo la metà di Gennaio a cavallo dei “De de la merla” (i giorni della merla) il 29-30-31 del primo mese dell’anno.
I giorni della merla  solitamente erano i più freddi e portavano copiose nevicate e per questo venivano abbinati ai Santi Mercanti della Neve. Questi giorni erano considerati dai contadini come un almanacco, in base al tempo che si verificava nei tre giorni si ipotizzava il tempo per il resto dell’anno.
Da leggende https://comasira.wordpress.com/sono-arrivati-i-mercanti-della-neve/
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LEGGENDE DIABOLICHE DELLA BERGAMASCA
 
 
Il Diavolo ha sempre fatto parte dei racconti della tradizione popolare, soprattutto di quella agricolo-rurale, così lontana dalla frenesia della città, tanto ai giorni nostri quanto nel lontano passato. Spesso e volentieri la figura di Satana e dei suoi adepti ha fatto capolino nelle leggende più nei paesi che nei capoluoghi, vuoi per spiegare fatti altrimenti inspiegabili in situazioni di disagio sociale ed economico maggiore vuoi per il forte attaccamento alle credenze religiose che la società agricola ha sempre avuto. Il territorio della bergamasca non si esime da questo contesto, anzi moltissime sono le dicerie e le storie che riguardano il Diavolo sparse in tutto il territorio.

Cominciamo il nostro percorso diabolico nella provincia di Bergamo dalla mulattiera che si snoda tra Aviatico e Costa Serina: giunti a un certo punto, di fianco alla strada, si trova una pietra piatta, rettangolare, sulla quale sono chiaramente visibili le impronte di due piedi bovini e la sagoma di uno di quei caratteristici lumi metallici a olio che si usavano un tempo. La leggenda vuole che un tempo le famiglie di quella zona proibissero ai figli di andare a ballare, ma, nonostante il divieto, una ragazza frivola e capricciosa della località chiamata Trafficanti, qualche domenica, trovando il modo di recarsi ad Aviatico, andava a ballare in una certa osteria. Una sera, mentre stava tornando a casa, fu accompagnata da un ragazzo sconosciuto che, arrivato nel punto sopra indicato della strada, depose il lume che aveva con sé per illuminare il cammino e invitò la ragazza a fare un altro balletto proprio sopra quella pietra. La fanciulla acconsentì, ma dopo i primi passi, guardando verso il basso, si accorse che il suo cavaliere aveva stinchi e piedi bovini. Guardandolo in faccia si accorse a quel punto che il suo aspetto era cambiato e che quello che aveva davanti a sé era il Diavolo in persona. Non fece in tempo a urlare dallo spavento che la pietra si aprì e inghiottì la ballerina e il suo damerino d’Averno. In questa zona si credeva talmente tanto a questa leggenda che, perfino trent’anni fa, le donne che passavano per quei luoghi si facevano il segno della Croce e le mamme più anziane facevano notare quelle impronte alle figlie affinché si guardassero dai peccati di vanità e di disobbedienza.

 
Proseguendo il nostro viaggio diabolico nella provincia bergamasca ci spostiamo a Seriate, dove si trova una specie di portale aperto tra due larghi stipiti che serve d’ingresso al viale che conduce alla casa di campagna detta Celladina. Fu costruito nel 1550 da Sandro da Sanga per ordine del Conte Gian Giacomo de’ Tassis della famiglia del grande Torquato, allora proprietario della casa. La leggenda popolare vuole invece che quella costruzione fosse sorta per opera del Diavolo in persona, in una sola notte. Si dice anzi che questo in una delle notti successive, l’avesse demolita e poi rifatta subito in pochissimo tempo. Dello sveltissimo muratore infernale ovviamente nessuna traccia, all’infuori di un forte odore di zolfo che, nelle sere di temporale quando laggiù c’è lite in famiglia, si spanderebbe tutto attorno al manufatto.

Andiamo ora nella contrada Carale, nell’Alta Valle Brembana, dove si narra ancora oggi la leggenda del “Rossal”, un uomo burbero, selvatico e violento, che viveva di ruberie ai danni delle persone del luogo. Il suo soprannome era dovuto al colore rossiccio dei capelli e della barba. I suoi misfatti erano tanti e tanto gravi e dalla sua bocca non uscivano altro che bestemmie e parole sacrileghe che il Rossal era davvero un tipo temuto e tenuto lontano da tutti. Un bel giorno Lucifero in persona, esaminando i suoi registri, si accorse che costui era ormai maturo per l’Inferno, perciò fece chiamare quattro dei suoi più abili e cattivi diavoli e li spedì sulla Terra, affinché gli portassero il Rossal in persona. Il giorno dopo, era di domenica, mentre la gente si recava in chiesa, il Rossal, con lo schioppo in spalla, si diresse invece verso i monti. Dopo aver girato per tutta la mattina senza incontrare anima viva, arrivato al costone della Snandra, vide ben quattro camosci che pascolavano davanti a lui. Mentre li guardava, gli animali presero a crescere a dismisura, avvicinandosi a lui. Ma dal villaggio giunse all’improvviso il suono delle campane della chiesa e i quattro messi infernali camuffati scomparvero in una fumata. Il Rossal tornò a casa, dispiaciuto per le quattro bestie scappate, piuttosto che spaventato. Dopo il fallimento dei quattro diavoli, al cospetto di Belzebù si presentò un diavoletto zoppo, molto malridotto che gli promise di portargli il Rossal in otto giorni. Quest’ultimo una domenica sera, mentre stava tornando a casa con un camoscio sul dorso, si accorse che c’era una specie di maiale con le corna che si infilava in mezzo alle sue gambe, impedendogli di procedere. Questo maialetto era il diavoletto zoppo che si era tramutato in quell’animale. Il maiale prese improvvisamente a ingrossare e il Rossal gli assestò una violenta pedata, tanto che questi scomparve in uno scoppio fragoroso, seguito da una violenta frana che travolse il Rossal, trascinandolo molto in basso nella valle. Riuscì a sopravvivere per ancora pochi giorni e quando, allo scadere dell’ottavo giorno, morì, il suo animo fu portato all’Inferno dal diavoletto zoppo, che così mantenne la sua promessa fatta al Generale dell’Inferno.

 
Sempre nell’Alta Valle Brembana, ma stavolta a Cusio, si narra un’altra leggenda altrettanto diabolica, quella del cosiddetto Avarone. Costui era un giovane mandriano al servizio di un ricco padrone che lo maltrattava e spesso malmenava. Questo trattamento nei confronti del ragazzo non fece altro che renderlo più forte e più resistente, tanto che riuscì ad arricchirsi con alcuni affari andati a buon fine. Ben presto riuscì a diventare talmente ricco da dedicarsi al commercio per conto proprio. Crescendo divenne un uomo cosi avaro da guadagnarsi il soprannome di Avarone. Un giorno riuscì a concludere un affare molto importante, ingannando un suo amico in fallimento e facendosi vendere un enorme campo in cima a un monte nelle vicinanze di Cusio. Arrivato in cima, dopo molta fatica e dopo molto cammino, si accorse però con estrema rabbia e delusione che i campi comprati per un prezzo bassissimo erano inutilizzabili, poiché pieni di pietre. Non sarebbe stato possibile farne niente. Con la rabbia che avvampava nel suo cuore, si ritrovò a dire che avrebbe venduto la sua stessa anima al diavolo, pur di poter utilizzare quei campi. Non fece in tempo a concludere la frase che tra due massi comparve il Diavolo in persona. In cambio della sua anima, Satana si prese la briga di ripulire il campo con un centinaio di altri diavoli minori. Soffione, uno dei diavoli, soffiò via le pietre talmente forte da renderlo completamente sterile. Avarone scappò via spaventato e andò nella vicina chiesa dove si attaccò alle campane e le suonò finché l’armata infernale non fu completamente scomparsa. Nessuno ha mai più osato andare su quel campo da allora, poiché si dice che sia maledetto e nessuno sa che fine abbia fatto Avarone, ma, in memoria di lui, il monte fu soprannominato Monte Avaro.

Spostiamoci ora a Gazzaniga, dove si dice che, là dove ora sorge un colorificio, si stendesse un tempo un grande prato con una casa colonica, nella quale nei giorni di festa i giovani si radunavano a ballare con grande disappunto del parroco. Una notte una giovane, che ballava con un elegante damerino, abbassandosi per allacciarsi una scarpa, si accorse con orrore che il suo ballerino aveva piedi e stinchi di caprone. Gridò e tentò di svincolarsi dalle braccia del giovane, ma questi sparì, sollevando una fumosa fiammata e facendo crollare tutto il cascinale. Da allora quel prato fu chiamato il “Prato del Diavolo”.

 
Concludiamo il nostro itinerario diabolico nella provincia di Bergamo a Schilpario dove, nella località detta Paladina, a poca distanza dal centro del paese, si dice vi fosse un’osteria dove la domenica i giovani erano soliti radunarsi per divertirsi smodatamente. Il parroco aveva più volte esortato le madri a proibire quei convegni ai figli e soprattutto alle figlie, ma invano. Una domenica sera, durante una funzione in chiesa, lo stesso parroco, ispirato dal cielo mentre predicava, disse: «Chi ha figlioli e figliole ai Forni della Paladina sappia che lassù è apparso il Diavolo e va tutto in rovina». Seguito dalla popolazione, si portò sul luogo e non vi trovò che una voragine senza più nessuna abitazione.
Che tutte queste storie siano leggende o realtà, in ogni caso… non sentite anche voi puzza di zolfo?
24/01/2009, Davide Longoni
Tratto da http://www.lazonamorta.it/lazonamorta2/?p=911

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