Il mandriano spergiuro
Questa multiforme versione di una
storia pressoché identica, ne denota la popolarità tra le popolazioni a cavallo
tra le valli Brembana e Seriana e relative diramazioni. Per non far torto a
nessuno, ne viene qui esposta una sintesi che assomma le varie versioni,
lasciando volutamente indeterminati il paese e i personaggi. Or dunque, era
sorta in quel paese una disputa accanita circa i diritti di possesso di un
alpeggio.
La maggioranza dei capifamiglia riteneva che tale alpeggio fosse di
proprietà comunale e quindi a disposizione di tutti. Non così la pensava un
vecchio mandriano, che era forestiero e il cui arrivo in paese, parecchi anni
prima, aveva scatenato la discordia, in quanto egli vantava su quel pascolo
diritti di esclusiva proprietà. Diritti, osservava, risalenti ai suoi antenati
e tramandati in eredità di padre in figlio, fino a lui stesso. Una serie di
processi, celebrati davanti al vicario di valle, non erano valsi ad appurare
chi fosse il legittimo proprietario, di conseguenza, in mancanza di uno
specifico divieto della pubblica autorità e facendosi scudo dei suoi asseriti
diritti, il mandriano portava ogni anno regolarmente la sua mandria
sull'alpeggio, sordo alle lamentele dei compaesani, i quali dal canto loro non
erano ormai più disposti a subire tale situazione, considerandola un vero e
proprio sopruso.
La cerimonia ebbe luogo una domenica mattina,
poche settimane prima dell'avvio della stagione dell'alpeggio: i contendenti,
le rispettive famiglie e quasi tutta la popolazione si riunirono attorno alla
baita del pascolo della discordia. Assieme a loro giunsero lassù i consoli e i
consiglieri del paese, il vicario di valle, in qualità di giudice supremo e i
rappresentanti del governo inviati dal podestà di Bergamo, accompagnati da un
drappello di soldati col compito di sedare non improbabili tumulti.
C'erano poi
il parroco del paese e un canonico, mandato dal vescovo allo scopo di attestare
la validità del sacro giuramento, infine un notaio, con il compito di redigere
il relativo atto formale. Celebrata la messa, le autorità civili e religiose si
disposero attorno all'altare e invitarono i contendenti a giurare davanti al
crocifisso, dopo averli severamente ammoniti sui gravi castighi civili e
religiosi riservati agli spergiuri. Nessuno dei mandriani del paese ebbe però
il coraggio di pronunciare la solenne formula attestante il loro diritto di
proprietà, infatti non avevano alcuna certezza di tale diritto, non disponendo
di prove ufficiali e inconfutabili.
Così fu, e da
quel momento il mandriano poté far pascolare le sue bestie su quel terreno,
godendo della protezione della legge. Ma, se all'apparenza, ostentava sicurezza
e spavalderia, la sua coscienza era agitata da un sordo rimorso. Infatti il suo
giuramento era stata una vera e propria truffa e, se di fronte agli uomini
tutto sembrava all'apparenza ineccepibile, dentro di sé egli era consapevole di
essersi meritato il castigo di Dio. Castigo che non sarebbe tardato ad arrivare,
considerata l'età dello spergiuro. Era infatti accaduto che il giorno del
giuramento il mandriano, mal consigliato dalla moglie, era entrato nel suo
orto, aveva preso due manciate di quella terra e l'aveva messa nelle sue
scarpe, sotto i piedi.
Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe la punizione che si meritava.
Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe la punizione che si meritava.
E di che natura fosse la
penitenza lo appresero tutti coloro che negli anni seguenti ebbero la ventura
di passare dalle parti dell'alpeggio durante un temporale. Allora potevano
vedere l'anima dello spergiuro vagabondare per la montagna in groppa a un
cavallo di fuoco che scalpitava sinistramente tra lampi e tuoni in un turbine
di vento e grandine. A ogni passaggio il dannato mandriano urlava un ordine
lugubre e disperato: "Laghì sta i tèrmegn! La róba di óter la fa póca zuàda!".
Manco a dirlo, più nessuna mandria poteva essere portata su quell'alpeggio
perché le mucche, in preda a un'indicibile inquietudine, si rifiutavano di
pascolare, emettevano muggiti lamentosi e non davano una goccia di latte.
Nemmeno le ripetute benedizioni impartite da vari sacerdoti seppero tener
lontana quell'anima dannata, che continuò per anni a seminare il panico tra i
montanari. E anche oggi può capitare, in certe notti di tempesta, di sentire su
per la montagna lamenti umani mescolati al brontolio dei tuoni mentre guizzi di
luce, simili a lampi, corrono qua e là sopra la distesa dei pascoli.
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Valleve - fotografia di Vallebrembanaweb
Tratto da http://www.lazonamorta.it/lazonamorta2/?p=911
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani - Ferrari, Clusone, 2001
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«La spada nella
roccia» sulle Orobie?
C’è davvero, sulle rive del Barbellino
C’è davvero, sulle rive del Barbellino
Svelato il mistero dopo la «leggenda»
rilanciata sul web: l’ha realizzata
un guardiacaccia sulla scia della leggenda delle Cascate del Serio.
Che ci fa una spada nella roccia sulle Orobie? Il quesito postato sul
gruppo Facebook «Orobie Trekking» da un’escursionista sarda, ha consentito in
questi giorni di svelare il «mistero» della spada in ferro conficcata in una
roccia in riva al lago Barbellino vicino al Rifugio Curò. A posizionarla è
stato Matteo Rodari, 38 anni di Valbondione, guardiacaccia della locale
riserva faunistica volontario del Soccorso Alpino.
«Nessuna volontà di richiamare la leggenda dei cavalieri della Tavola
Rotonda - sottolinea - semplicemente un’idea venuta dall’iniziativa “Sentieri
creativi” promossa in estate dal Cai e dedicata ai giovani artisti. Ho pensato
di creare un indiretto richiamo alla leggenda delle Cascate del Serio e
coinvolto mio padre Modesto, che da sempre esprime la propria arte con dipinti
e sculture».
La leggenda narra che nella zona del Barbellino vivesse una dama, innamorata perdutamente di un giovane
pastore. Questi era però fidanzato con una ragazza locale. La dama la fece
rapire, imprigionandola nel suo castello in quota. Le lacrime della fanciulla
furono incessanti, al punto da formare rivoli impetuosi che travolsero il
castello, formando le cascate.
Da L'Eco di Bergamo - 1 novembre 2016
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La caccia-selvatica o
caccia-morta
Una leggenda assai popolare nella Bergamasca è quella
della “caccia-selvatica” o “ caccia-morta” che accumuna Costa Seria a
Valgoglio.
In certe ore della notte si potevano sentire su per le
montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e
di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti,
si potevano solo sentire i loro latrati. Erano le anime dannate di quei
cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare
a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i
monti, dando vita a un'incessante quanto sterile caccia.
-Si sussurra che a Costa Serina un viandante, imbattutosi
in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si
quietassero. Non l'avesse mai fatto; rientrando a casa aveva trovato appesa
alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale
l'aveva salvato il suo parroco, consigliandogli di riportare di notte
l'ingombrante reperto sul luogo dell'incontro con la caccia-selvatica, affinché
i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, con terrore, riuscendo a
cavarsi d'impaccio.
-Molto simile è il racconto della caccia-morta a
Valgoglio, dove si dice che una donna osservando quei dannati in corsa sfrenata
espresse una bizzarra richiesta: "Portatemi un po' della vostra selvaggina
con cui potrei sfamare i miei bambini". Fu subito accontentata; il mattino
dopo trovò appesa fuori della sua casa una gamba umana. Impaurita, la donna
corse a raccontare l'accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in
guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di
coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti,
nel pieno della notte la caccia-morta tornò e dalla canea vociante si alzò un
grido d'oltretomba, rivolto proprio a lei: "Buon per te che sei in mezzo
all'innocenza, altrimenti l'avresti pagata cara per aver osato parlare alla
caccia-morta".
Tratto da http://www.facoetti.com/index.php/storie-di-personaggi/274-leggende-bergamasche
La
leggenda dei mercanti di neve
Valleve - fotografia di Vallebrembanaweb
La leggenda è molto antica e la
tradizione vuole che si attribuiscano le abbondanti nevicate ai seguenti Santi,
purtroppo quest'anno la "tradizione verrà smentita dalle previsioni
meteorologiche.
San Mauro (15 Gennaio) protettore di
tutti gli ammalati e di quelli che corrono seri pericoli
San Antonio Abate (17 Gennaio) protettore degli animali, viene festeggiato a
Vendrogno con la benedizione degli animali, il falò e la “busecca” (trippa in
brodo con verdure), a Bergamo con la tradizionale vendita di
"biligocc", collane di castagne essiccate e affumicate in capanni
appositi.
Poi abbiamo San Sebastiano (20 Gennaio) patrono di Comasira
appunto, il giovane martire milanese viene raffigurato legato e trafitto da
frecce. Santa Agnese (21 Gennaio) patrona delle giovani dei giardinieri e degli
ortolani, Santa Agata (5 Febbraio) viene festeggiata a Tremenico in Valvarrone.
San Vincenzo (22Gennaio) patrono di Ombriaco molto sentito e festeggiato con
fuochi pirotecnici. San Biagio (3 Febbraio) protettore della gola patrono di
Bindo in Valsassina.
A questi Santi si attribuiva anche l’arrivo della
primavera con il proverbio (San Sebastian con la viola in man, viola o non
viola dell’inverno sem fora) (San Sebastiano con la viola in mano, viola o non
viola dall’inverno siamo fuori). Ma questo detto nel contempo si contrappone
con quest’altri: ( San Maur un frec de diaul, Sant Antoni un frec de demoni,
San Sebastian un frec de can) (San Mauro un freddo del diavolo,San Antonio un
freddo del demonio, San Sebastiano un freddo da cani) anche perchè i Santi
elencati compaiono sul calendario dopo la metà di Gennaio a cavallo dei “De de
la merla” (i giorni della merla) il 29-30-31 del primo mese dell’anno.
I giorni
della merla solitamente erano i più freddi e portavano copiose nevicate e
per questo venivano abbinati ai Santi Mercanti della Neve. Questi giorni erano
considerati dai contadini come un almanacco, in base al tempo che si verificava
nei tre giorni si ipotizzava il tempo per il resto dell’anno.
Da leggende https://comasira.wordpress.com/sono-arrivati-i-mercanti-della-neve/
------------------- LEGGENDE
DIABOLICHE DELLA BERGAMASCA
Il
Diavolo ha sempre fatto parte dei racconti della tradizione popolare,
soprattutto di quella agricolo-rurale, così lontana dalla frenesia della città,
tanto ai giorni nostri quanto nel lontano passato. Spesso e volentieri la
figura di Satana e dei suoi adepti ha fatto capolino nelle leggende più nei
paesi che nei capoluoghi, vuoi per spiegare fatti altrimenti inspiegabili in
situazioni di disagio sociale ed economico maggiore vuoi per il forte
attaccamento alle credenze religiose che la società agricola ha sempre avuto.
Il territorio della bergamasca non si esime da questo contesto, anzi moltissime
sono le dicerie e le storie che riguardano il Diavolo sparse in tutto il
territorio.
Cominciamo
il nostro percorso diabolico nella provincia di Bergamo dalla mulattiera che si
snoda tra Aviatico e Costa Serina: giunti a un certo punto, di fianco alla
strada, si trova una pietra piatta, rettangolare, sulla quale sono chiaramente
visibili le impronte di due piedi bovini e la sagoma di uno di quei
caratteristici lumi metallici a olio che si usavano un tempo. La leggenda vuole
che un tempo le famiglie di quella zona proibissero ai figli di andare a
ballare, ma, nonostante il divieto, una ragazza frivola e capricciosa della
località chiamata Trafficanti, qualche domenica, trovando il modo di recarsi ad
Aviatico, andava a ballare in una certa osteria. Una sera, mentre stava
tornando a casa, fu accompagnata da un ragazzo sconosciuto che, arrivato nel
punto sopra indicato della strada, depose il lume che aveva con sé per illuminare
il cammino e invitò la ragazza a fare un altro balletto proprio sopra quella
pietra. La fanciulla acconsentì, ma dopo i primi passi, guardando verso il
basso, si accorse che il suo cavaliere aveva stinchi e piedi bovini.
Guardandolo in faccia si accorse a quel punto che il suo aspetto era cambiato e
che quello che aveva davanti a sé era il Diavolo in persona. Non fece in tempo
a urlare dallo spavento che la pietra si aprì e inghiottì la ballerina e il suo
damerino d’Averno. In questa zona si credeva talmente tanto a questa leggenda
che, perfino trent’anni fa, le donne che passavano per quei luoghi si facevano
il segno della Croce e le mamme più anziane facevano notare quelle impronte
alle figlie affinché si guardassero dai peccati di vanità e di disobbedienza.
Proseguendo
il nostro viaggio diabolico nella provincia bergamasca ci spostiamo a Seriate,
dove si trova una specie di portale aperto tra due larghi stipiti che serve
d’ingresso al viale che conduce alla casa di campagna detta Celladina. Fu costruito
nel 1550 da Sandro da Sanga per ordine del Conte Gian Giacomo de’ Tassis della
famiglia del grande Torquato, allora proprietario della casa. La leggenda
popolare vuole invece che quella costruzione fosse sorta per opera del Diavolo
in persona, in una sola notte. Si dice anzi che questo in una delle notti
successive, l’avesse demolita e poi rifatta subito in pochissimo tempo. Dello
sveltissimo muratore infernale ovviamente nessuna traccia, all’infuori di un
forte odore di zolfo che, nelle sere di temporale quando laggiù c’è lite in
famiglia, si spanderebbe tutto attorno al manufatto.
Andiamo
ora nella contrada Carale, nell’Alta Valle Brembana, dove si narra ancora oggi
la leggenda del “Rossal”, un uomo burbero, selvatico e violento, che viveva di
ruberie ai danni delle persone del luogo. Il suo soprannome era dovuto al
colore rossiccio dei capelli e della barba. I suoi misfatti erano tanti e tanto
gravi e dalla sua bocca non uscivano altro che bestemmie e parole sacrileghe
che il Rossal era davvero un tipo temuto e tenuto lontano da tutti. Un bel
giorno Lucifero in persona, esaminando i suoi registri, si accorse che costui
era ormai maturo per l’Inferno, perciò fece chiamare quattro dei suoi più abili
e cattivi diavoli e li spedì sulla Terra, affinché gli portassero il Rossal in
persona. Il giorno dopo, era di domenica, mentre la gente si recava in chiesa,
il Rossal, con lo schioppo in spalla, si diresse invece verso i monti. Dopo
aver girato per tutta la mattina senza incontrare anima viva, arrivato al
costone della Snandra, vide ben quattro camosci che pascolavano davanti a lui.
Mentre li guardava, gli animali presero a crescere a dismisura, avvicinandosi a
lui. Ma dal villaggio giunse all’improvviso il suono delle campane della chiesa
e i quattro messi infernali camuffati scomparvero in una fumata. Il Rossal
tornò a casa, dispiaciuto per le quattro bestie scappate, piuttosto che
spaventato. Dopo il fallimento dei quattro diavoli, al cospetto di Belzebù si
presentò un diavoletto zoppo, molto malridotto che gli promise di portargli il
Rossal in otto giorni. Quest’ultimo una domenica sera, mentre stava tornando a
casa con un camoscio sul dorso, si accorse che c’era una specie di maiale con
le corna che si infilava in mezzo alle sue gambe, impedendogli di procedere.
Questo maialetto era il diavoletto zoppo che si era tramutato in quell’animale.
Il maiale prese improvvisamente a ingrossare e il Rossal gli assestò una
violenta pedata, tanto che questi scomparve in uno scoppio fragoroso, seguito
da una violenta frana che travolse il Rossal, trascinandolo molto in basso
nella valle. Riuscì a sopravvivere per ancora pochi giorni e quando, allo
scadere dell’ottavo giorno, morì, il suo animo fu portato all’Inferno dal
diavoletto zoppo, che così mantenne la sua promessa fatta al Generale
dell’Inferno.
Sempre
nell’Alta Valle Brembana, ma stavolta a Cusio, si narra un’altra leggenda
altrettanto diabolica, quella del cosiddetto Avarone. Costui era un giovane
mandriano al servizio di un ricco padrone che lo maltrattava e spesso
malmenava. Questo trattamento nei confronti del ragazzo non fece altro che
renderlo più forte e più resistente, tanto che riuscì ad arricchirsi con alcuni
affari andati a buon fine. Ben presto riuscì a diventare talmente ricco da
dedicarsi al commercio per conto proprio. Crescendo divenne un uomo cosi avaro
da guadagnarsi il soprannome di Avarone. Un giorno riuscì a concludere un
affare molto importante, ingannando un suo amico in fallimento e facendosi
vendere un enorme campo in cima a un monte nelle vicinanze di Cusio. Arrivato
in cima, dopo molta fatica e dopo molto cammino, si accorse però con estrema
rabbia e delusione che i campi comprati per un prezzo bassissimo erano
inutilizzabili, poiché pieni di pietre. Non sarebbe stato possibile farne niente.
Con la rabbia che avvampava nel suo cuore, si ritrovò a dire che avrebbe
venduto la sua stessa anima al diavolo, pur di poter utilizzare quei campi. Non
fece in tempo a concludere la frase che tra due massi comparve il Diavolo in
persona. In cambio della sua anima, Satana si prese la briga di ripulire il
campo con un centinaio di altri diavoli minori. Soffione, uno dei diavoli,
soffiò via le pietre talmente forte da renderlo completamente sterile. Avarone
scappò via spaventato e andò nella vicina chiesa dove si attaccò alle campane e
le suonò finché l’armata infernale non fu completamente scomparsa. Nessuno ha
mai più osato andare su quel campo da allora, poiché si dice che sia maledetto
e nessuno sa che fine abbia fatto Avarone, ma, in memoria di lui, il monte fu
soprannominato Monte Avaro.
Spostiamoci
ora a Gazzaniga, dove si dice che, là dove ora sorge un colorificio, si
stendesse un tempo un grande prato con una casa colonica, nella quale nei
giorni di festa i giovani si radunavano a ballare con grande disappunto del
parroco. Una notte una giovane, che ballava con un elegante damerino,
abbassandosi per allacciarsi una scarpa, si accorse con orrore che il suo
ballerino aveva piedi e stinchi di caprone. Gridò e tentò di svincolarsi dalle
braccia del giovane, ma questi sparì, sollevando una fumosa fiammata e facendo
crollare tutto il cascinale. Da allora quel prato fu chiamato il “Prato del
Diavolo”.
Concludiamo
il nostro itinerario diabolico nella provincia di Bergamo a Schilpario dove,
nella località detta Paladina, a poca distanza dal centro del paese, si dice vi
fosse un’osteria dove la domenica i giovani erano soliti radunarsi per
divertirsi smodatamente. Il parroco aveva più volte esortato le madri a
proibire quei convegni ai figli e soprattutto alle figlie, ma invano. Una
domenica sera, durante una funzione in chiesa, lo stesso parroco, ispirato dal
cielo mentre predicava, disse: «Chi ha figlioli e figliole ai Forni della
Paladina sappia che lassù è apparso il Diavolo e va tutto in rovina». Seguito
dalla popolazione, si portò sul luogo e non vi trovò che una voragine senza più
nessuna abitazione.
Che
tutte queste storie siano leggende o realtà, in ogni caso… non sentite anche
voi puzza di zolfo?
24/01/2009, Davide LongoniTratto da http://www.lazonamorta.it/lazonamorta2/?p=911
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