Storie di montagna

Una storia deprimente
 

Paesino di montagna, poco più di mille residenti suddivisi in quattro nuclei. La domenica tutti a messa e massima affluenza alle rituali processioni  annuali. In buona sostanza: un paese di cattolici in buona parte praticanti.
Durante il periodo estivo la popolazione supera le diecimila unità grazie alle case di vacanza sorte nei tempi del boom economico il cui contributo finanziario, dovuto all'Imu e ad altre imposte comunali, permette all'Amministrazione locale  un bilancio decoroso.
Sin'ora questa Comunità non ha subito imposizioni per ospitare extracomunitari e, sostanzialmente, ha vissuto nel proprio "isolamento" con la sicurezza dei "Comuni di medioevale memoria".
Ma dopo il tempo delle vacche grasse, quando il turismo estivo e invernale aveva prodotto, e in parte lo produce ancora seppure in maniera più limitata, tanti benefici, ora arriva un piccolo, esiguo conticino da pagare: l'ospitalità ad alcuni, pochi, molto pochi rispetto ad altre realtà, extracomunitari. Da sottolineare che ad accollarsi il compito è un privato.
Quasi fosse la notizia dell'arrivo della peste, di manzoniana memoria, ecco scatenarsi il malcontento e la paura. Due percezioni che vanno di pari passo e che sono originate dalla paura del diverso; diverso di colore, diverso di cultura e di parola. La discussione, prima tra pochi, si allarga sui Social e Facebook diventa la palestra degli attributi peggiori che una persona, credente e praticante, possa riferire.
Si discute sulle violenze fisiche e psicologiche nei confronti di donne e bambini, sulle potenziali azioni criminose nei confronti della "propria roba", quasi fosse un'orda di barbari che invade la sonnolenza indisturbata che avvolge e ovatta l'altra parte del mondo.
Intromettersi in questa discussione diventa una colpa di lesa maestà per un non residente. «Come osi esprimere la tua opinione, tu che vivi in città, in un altro mondo », è la frase più educata che ti senti rispondere anche se quel paesino lo frequenti da oltre quarant'anni, hai amicizie consolidate e condividi gioie e dolori dei suoi abitanti.
In verità debbo dire che la maggioranza di chi si esprime in questo è composta dal sesso femminile, ma non vorrei che questa personale sensazione fosse equivocamente interpretata come "sessuofoba".
Si costituiscono Comitati e, persino, Gruppi chiusi su FB per lasciare libero sfogo agl'iscritti senza l'intromissione di critici e, soprattutto di "foresti". Alla faccia della democrazia e della tolleranza.
Questo accade in un piccolo paesino di montagna, poco più di mille abitanti, cattolici,  distribuiti in quattro nuclei.
Ricordo una storiella, che mi raccontava un vecchio del luogo, riguardante una cascina isolata della zona: "La Cà di Res", dove le famiglie, tanti anni orsono, si raccoglievano la sera ai piani superiori e toglievano la scala a pioli che permetteva l'ingresso nelle camere da letto.
Sono trascorsi molti, molti anni ma la mentalità è rimasta quella di allora.
PS: La storiella la potete trovare sul sito:
http://gallicusracconta.blogspot.it/p/scale-scomparsa-come-tutelarsi-dai.html
 
 

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Un antico santuario celtico alle sorgenti del Brembo?


 
 
Prima che un governatore generale dell’India lo ribattezzasse nel 1865, il nome dell’Everest era Chomolangma, Madre dell’Universo, come lo chiamano i Tibetani (i Nepalesi, invece, Sagaramāthā, Dio del cielo). Le sommità, i passi, le vette dei monti, per la loro altitudine che li rende luoghi inaccessibili, simboleggiano da sempre, in tutte le culture, il contatto con il divino. Così le montagne spesso accolgono i simboli sacri e profani che l’uomo, nella sua storia, ha eretto. Le Orobie bergamasche non sono da meno. 
 
Le incisioni rupestri sopra Carona. Anche le Orobie di Bergamo conservano alcuni di questi luoghi. Nell’Alta Val Brembana, i blocchi di pietra crollati dalle pareti rocciose hanno offerto ai frequentatori dei pascoli delle specie di lavagne naturali su cui incidere figure e iscrizioni. Le più lontane nel tempo risalgono a oltre 20 secoli fa, ma ce ne sono anche di più recenti. Sopra Carona, fra i 2100 e i 2400 metri, si trovano molte di queste testimonianze rupestri. Croci, cuori, nodi di Salomone e stelle a cinque punte sono i simboli più frequenti, ma non mancano rappresentazioni di uomini armati di epoca medievale e moderna.


 
Reperti di parole e di oggetti al Passo di Valsecca. Più in alto si raggiunge il Passo di Valsecca, importante punto di comunicazione con la Val Seriana. Il luogo, si è scoperto, era frequentato sin dall’antichità. I frammenti di parole recuperati qui sono in un alfabeto arcaico, testimonianza delle antiche popolazioni che abitavano i territori montani di Bergamo già tre secoli prima di Cristo. Tra gli oggetti ritrovati: una fibula, cioè una spilla per indumenti, e dei pezzi di bronzo anticamente usati come moneta.

 

l santuario celtico. A guardarsi intorno, si distingue, nel pendio, un enorme masso monumentale. Una roccia di 16 metri quadrati che gli archeologi hanno chiamato CMS1. Isolata, domina la valle Camisana, alle sorgenti del Brembo. Su di esso la figura di un pastore circondato da lupi con gli artigli in evidenza e fauci spalancate. Testimonianza di un frammento di vita alpina. A fianco, un personaggio che indossa una lunga tunica e regge un bastone, forse un sacerdote in preghiera. Più in basso, le scritte decifrate più importanti, testimonianze di devozione per le divinità dei monti e del transito: invocazioni in lingua celtica al dio Pennino, la più importante divinità celtica, considerato il protettore dei pericoli della montagna. Gli archeologi non hanno dubbi, si tratta di un santuario naturale dedicato alle divinità dei monti.
 
Gli archeologi bergamaschi all’opera. Stefania Casini, direttrice del Museo Archeologico di Bergamo dal 1988, specializzata in archeologia preistorica, dirige una campagna di scavo in queste zone. Dopo la prima segnalazione del 2006, ogni anno, in estate, la squadra raggiunge il sito. Data la posizione in quota, il luogo è accessibile soltanto durante i mesi più caldi. Ogni intervento dura circa 15 giorni, durante i quali vengono eseguiti rilevamenti, effettuati i calchi delle incisioni  e piccoli scavi. Nel periodo delle operazioni  si dorme al Rifugio Longo, ogni mattina e ogni sera sono due ore di cammino, con strumentazione in spalla.
 
Il materiale raccolto è spedito in parte a Lecce, all’Università del Salento, per la datazione con il metodo del radiocabonio, e in parte all’Università di Pisa, dove Filippo Morra, professore di Filologia celtica, studia e decifra le iscrizioni. Ogni uscita ha un costo di circa 8mila euro. I fondi sono molto limitati ma fino ad oggi è stato possibile mantenere in vita il progetto con il contributo della Regione, di Bergamo e del comune di Carona. Salvare dall’erosione un pezzo di storia del territorio e insieme portare avanti la ricerca sulle antiche popolazioni è la missione del Museo Archeologico, per ricordarsi di quando, tanto tempo fa, i Bergamaschi erano Celti.
 
30 maggio 2016
Tratto da http://www.bergamopost.it/vivabergamo/santuario-celtico-alle-fonti-brembo/

 
 
 

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I Mis de l'An
 
 




L'gh'è dùdes fradèi                


fiöi d' ü papà                          

lunare d' ü tép

che l' cor e che l' và. 

Ol prim l'è Zener

che l' gh'à sémper frécc

el ria col gabà

tremolét stèss d' ü ècc.

Fevrér pio pissèn

amó quase 'n fassa.

Dopo l' vé Mars

empo' spolverént

che l'è ol parét

piö apröf al grand vént.

Avrìl el ga góta 'l barìl.

Mass, co la sò diossiù

l' ma pórta di fiùr a muntù.

Zogn co' la ranza

i pracc a l'inguàla

'ntat che i lösérte

söi mur i sa spiàna.

Löi l'è 'l mìs

che col sò calùr

el dèsda i sigale

che i zirla d'amùr.

Óst l'è 'l mis de possà

e töta la zet la scapa de cà.

Setémberl'è 'l mis di regoi:

l'oa 'n di bòte

töta la bói.

Otoer l'è chèl col magù

che l' cambia i culùr

ensèma ai stagiù.

Noèmber l'è 'l mis di nòs-cc mórcc

regàl de preghiere

per töcc sénsa tórcc.

Desèmber, che grand poesia!

Ol mónd di s-cetì

l'è pié de magia.

e l' nass ol Bambì,

Nedàl in da cüna

l'è ché per portàm

amùr e furtüna...

 

Sergio Fezzoli dal libro Sotaùs

 
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Nelle miniere bergamasche anche bambini e donne

Le "taissine"

l’infanzia rubata in Valle di Scalve

Cazzano Sant'Andrea e i 13 morti della miniera
 


Nelle miniere bergamasche anche bambini e donne


Le "taissine"
 
 

Sembra quasi impossibile, eppure non molti decenni fa, all’imbocco delle miniere, accanto ai minatori, lavoravano anche le donne.

Erano le “taissine”, cernitici di minerale.

 In questo ciclo di lavorazione furono impiegati donne e fanciulli, addetti alla cernita del minerale, ed al trasporto dai cantieri alti alla carreggiabile. La roccia estratta dai minatori veniva portata a spalla da donne e ragazzi, sui piazzali situati all’imbocco delle gallerie dove altre donne erano addette allo spezzettamento con martelli e alla cernita della calamina mentre il materiale non produttivo veniva gettato nelle discariche.

Il lavoro cominciava già nei piazzali antistanti la miniera, qui alcuni uomini rompevano con grosse mazze i pezzi più grossi, e successivamente intervenivano le donne che con martelli liberavano il più possibile il minerale dallo sterile. Chine o sedute su rozzi sgabelli spezzettavano il minerale e lo ammucchiavano vicino alle stazioni di partenza; con il sole, il vento o il freddo, il duro lavoro proseguiva per otto o più ore al giorno per una paga scarsa ma importante per la famiglia, il salario a cottimo era di circa due lire per ogni giornata lavorativa

Altre donne soprattutto quelle più robuste erano addette al trasporto del materiale che avveniva con gerletti portati a spalla, i quali potevano contenere fino a 40 chili di minerale per viaggio.

Era un lavoro duro e difficile per tutti, per i minatori che lavoravano in galleria con poca aria e luce, per i bambini costretti dopo i 12 anni a guadagnarsi da vivere, per le donne che spesso alternavano i lavori in miniera con quelli agricoli e domestici.

Questo lavoro fu svolto dalle donne con tanta pazienza e fatica, l’ultimo libretto paga risale al 1962.

In seguito subentrarono nuovi sistemi di lavorazione meccanici che andarono a sostituire un lavoro manuale svolto per tanti anni dalle donne.

Bambini minatori: in un libro
l’infanzia rubata in Valle di Scalve

Nel 1839, su 145 operai che scendevano nelle viscere della Gaffiona 54 erano minori

In un quadro sul lavoro minorile presentato nel 1839 dalla Deputazione di Schilpario si legge che «nella miniera Gaffiona, Barzesto e nelle 22 bocche del gruppo Colli-Glaiole lavorano 54 fanciulli su 145 operai. I ragazzi venivano impiegati in questi lavori non prima degli 11-12 anni ma lavoravano 12 ore: 8 di giorno e 4 di notte». Un ex minatore ricorda un’altra mansione affidata ai bambini: «lavoravano anche i bambini, non nelle gallerie, ma fuori, avevano una specie di incudine e con il martello spezzavano il materiale che usciva dalla miniera, buttando da parte lo scarto. Erano pagati una miseria»...
Ancora, un altro testimone, ex minatore nelle frere (miniere) di Schilpario: «Ogni qualvolta si partiva da casa era un’avventura... Si entrava in miniera bagnati e si usciva bagnati. Le malattie professionali erano prevalentemente dovute all’umidità (100%) nelle gallerie e al flagello della silicosi, “la polvere che chiude i polmoni”... Eravamo con i vestiti sempre bianchi, e quella roba lì andava nei polmoni, e con l’andar del tempo in diversi abbiamo preso il “male della mina”. Ci avevano dato delle maschere per non respirare la polvere, ma funzionavano per poco, si impastavano con l’umidità, e allora mettevamo in bocca il fazzoletto. Ricordo diversi minatori che lavoravano nelle frere alte che per la vibrazione della macchina avevano perso il tatto delle mani: erano mani grosse, bianche, che non stringevano più... La silicosi portava velocemente alla morte e chi ne era affetto difficilmente poteva accedere ad un altro lavoro. Le persone della mia generazione, cresciute nei paesi della Val di Scalve, hanno di sicuro ancora negli occhi i non pochi uomini malati, spesso giovani, seduti sulla panca o sulla pietra fuori dall’uscio di casa: “Mi ricordo... - racconta un testimone all’autore di queste righe -... sentivano che stavano morendo. Era una cosa pietosa perché erano giovani».
La contabilità agghiacciante dei morti per silicosi non è possibile farsi, se non riferendosi ad un generico «disastro», come osservava un lavoratore di Lizzola che aveva lavorato alla Manina: «Noi abbiamo avuto dei caduti e dei dispersi in Russia, ma la miniera ha causato molti più decessi... qui c’è stato un disastro... era triste vederli morire; ho visto i miei fratelli, i cugini... se sapessi che devo morire in quel modo, mi sparo. Forse nemmeno il numero dei morti per incidente è possibile conoscere, se non forse miniera per miniera. A Schilpario, ad esempio, nella chiesetta di santa Barbara, una grande lapide raccoglie i nomi e i luoghi dove persero la vita i lavoratori di quelle miniere... «Verso mezzogiorno non tornava nessuno... C’era un silenzio in quella montagna! Vedo che lo portano fuori... seguono gli uomini in fila indiana... mi viene ancora da piangere!».
Il tempo determina l’oblio dei morti per incidenti di lavoro, anche quando la disgrazia ebbe proporzioni ampie e terribili: chi ricorda, ad esempio, la fine dei 13 minatori nella miniera di lignite di Cazzano Sant’Andrea...? La tragedia avvenne la sera del 27 febbraio 1873, una sera buia e piovosa. Un gruppo di 13 minatori, appena sceso in galleria, rimase sepolto sotto il crollo di una massa imponente di terra e roccia: l’allarme venne dato la mattina successiva. Malgrado i tentativi fatti per salvarli, non furono mai ritrovati e i loro corpi rimasero per sempre nelle viscere della terra...
Angelo Bendotti

Cazzano Sant'Andrea e i 13 morti della miniera
 
L'anniversario di un tragico episodio della storia di Cazzano, ma anche la storia di un'attività che ha segnato profondamente la Val Gandino. È stato proposto giovedì 15 novembre ai ragazzi delle scuole elementari e medie di Cazzano S.Andrea il libro “Le miniere di lignite della Val Gandino”, realizzato la scorsa primavera da Franco Irranca. L'autore nel corso dell'incontro sarà affiancato dal geologo Enrico Mosconi, che presenterà una ricerca relativa alla geomorfologia della Val Gandino.

Verrà ricordato in particolare il 140° anniversario della tragedia che fra il 27 e il 28 febbraio 1873 vide perire in galleria tredici minatori. Nove di loro erano di Leffe, due di Cazzano e due di Casnigo. Cazzano e Casnigo. I compagni di lavoro per giorni e notti, sotto una pioggia incessante, immersi nel fango e alla luce di torce, cercarono invano di estrarli. Le salme non furono mai recuperate. Sulla vecchia mulattiera che da Leffe saliva a Cazzano, nel 1960 fu costruita una santella per opera di Adamo Colombi.

La presenza della lignite in Val Gandino è legata all'antico bacino lacustre, il lago-palude che milioni di anni fa, al suo prosciugamento, lasciò il sottosuolo ricco di banchi d'argilla, flora e fauna (noti i reperti relativi a un mammut preistorico) e soprattutto lignite. Lo sfruttamento sistematico del minerale iniziò alla fine del ‘700, quando Alessandro Radici di Gandino intuì l'opportunità degli scavi. Nel secolo successivo furono impiantate teleferiche, scavati pozzi profondi e lunghe gallerie in tutti i comuni della Valle: un cunicolo, passando sotto l'altipiano di Casnigo, raggiungeva il fiume Serio, a Vertova.
I lavori nelle miniere giunsero all'apice, con migliaia di operai impegnati nelle “büse”, tra la prima e la seconda guerra mondiale, anche a causa della difficoltà di reperimento, in quel periodo, del carbone. Nella seconda metà dell'800 la ditta Biraghi, volle esperimentare lo scavo a cielo aperto. Lo fece in alcuni prati nei dintorni dell'abitato di Leffe e quando, anni dopo, “lo scavo a giorno” fu abbandonato, il grande fossato, colmandosi d'acqua, divenne un laghetto.



In esso perirono per annegamento, nel 1938, un bambino di Leffe, Peppino Martinelli di 9 anni e nel 1961 Mario Savoldelli di 14 anni e Luciano Bertocchi di 17 anni, entrambi di Gandino.
a.ceresoli

 

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