lunedì 6 febbraio 2012

Nanga Parbat - Moro lancia l'attacco alla vetta


Oggi il bergamasco e il kazako Urubko iniziano la salita finale: in cima nella giornata di venerdì lungo l'itinerario percorso solo da Messner

«Partiamo: andiamo sulla montagna». Fanno un certo effetto le parole con cui Simone Moro annuncia il tentativo alla cima del Nanga Parbat, nona montagna della Terra. Fanno un certo effetto perché arrivano da quota 4.230, dal campo base, e davanti i due scalatori (col bergamasco ci sarà come di consueto il compagno kazako Denis Urubko) ne hanno quasi altrettanti.
Una montagna intera, come dice Simone, quando sotto i piedi ne hai già un'altra. Tipo una Marmolada
con sopra un Bianco. Perché il Nanga è sì la nona montagna del pianeta per altezza, ma la prima per ampiezza ed estensione complessiva. Il tutto nel pieno dell'inverno pakistano, con temperature che possono toccare i – 50 e venti che soffiano oltre i cento chilometri orari.
Per raggiungere gli 8.125, di questa cima scalata per la prima volta da Hermann Bhul e indissolubilmente legata al nome di Reinhold Messner, protagonista di pagine alpinistiche esaltanti quanto drammatiche, serviranno almeno cinque giorni: oggi – dopo aver ritardato di 24 ore la partenza per evitare il rischio di valanghe – campo 1 (5.000 metri), domani campo 2 (5.800 metri), mercoledì campo 3 (6.600 metri), giovedì campo 4 (7.400 metri) e venerdì, finalmente, la vetta tanto sudata.
Simone ottimista? «In questo genere di ascensioni non puoi mai sapere. Qui al Nanga ciò che mi preoccupa particolarmente è proprio il tempo minimo indispensabile per affrontare il dislivello che, rispetto al GII ad esempio, dal campo base e di mille metri superiore. Cinque giorni sono molti, soprattutto per gli effetti della scarsa idratazione. Comunque vedremo, siamo molto motivati e anche l'acclimatamento è stato fatto con tutti i crismi».

Poi c'è sempre il meteo...«Assolutamente, le previsioni danno una finestra di bel tempo di un paio di giorni proprio tra giovedì e venerdì. Per questo partiamo mentre ancora fa brutto, contiamo di arrivare ai campi alti nel momento più propizio e cioè quando tornerà il sole. È una tattica che abbiamo già testato con successo lo scorso anno e che ci auguriamo possa rivelarsi vincente anche in questa spedizione, nonostante quei famosi mille metri di dislivello con l'aggiunta di un aspetto esplorativo che non va assolutamente sottovalutato.
Essendo la Kinshoffer, e cioè la via normale, impraticabile perché troppo rischiosa, abbiamo optato per un itinerario molto più lungo che è stato parzialmente percorso solo da Messner assieme al compagno Hans Peter Eisendle nel 2000. La prima parte si snoda attraverso lo Diama glacier e fa un certo effetto pensare che qui, oltre alla cordata di Messner, è passata solo un'altra persona e cioè l'inglese Mummery che purtroppo, nel 1895, proprio tra i meandri di questo ghiacciaio scomparve».
In montagna i rischi non mancano mai.
Ne abbiamo avuto una tragica conferma con il fatale incidente occorso a Mario Merelli. Come avete appreso la notizia e che riflessi ha avuto sulla vostra spedizione?
«L'abbiamo saputo mentre eravamo a campo 2, e sia io che Denis siamo rimasti esterrefatti: "No Mario!", abbiamo esclamato mettendoci le mani tra i capelli. Davvero una brutta botta. Così non ce la siamo sentita di proseguire: di fronte alla morte bisogna riflettere per poi rilanciare eventualmente la propria progettualità.
Questo è ciò che ho sempre cercato di fare, privilegiando certe modalità a quelle della semplice commemorazione. Nel mio caso è un percorso dettato anche dalla fede: ritengo che ogni essere umano rappresenti una penna mossa da una mano più grande, quella del Padre Eterno e che l'alpinismo rappresenti, nella sua essenza più profonda, un gesto d'amore, una pulsione lontana dalla razionalità.
Noi abbiamo solo deciso di scendere e riflettere, focalizzando la nostra attenzione sul fatto che se la
situazione fosse stata ribaltata, e cioè se al nostro posto fosse stato qui Mario, si sarebbe quasi certamente comportato allo stesso modo».

Ma adesso ha più paura?
«Chiaro che adesso siamo ancora più accorti, abbiamo le antenne ancora più alzate perché questo ti fa capire quanto la nostra presenza in questo contesto sia fragile. Adesso stai parlando, un secondo dopo non ci sei più. Portare avanti il proprio progetto; ciò in cui si crede resta però fondamentale, per lasciare un segno a chi resta. Per questo sono estremamente contento che la famiglia Merelli abbia già annunciato di voler proseguire nelle iniziative avviate da Mario che non erano solo alpinistiche, ma
avevano anche molti risvolti umanitari di grande generosità».

C'è qualcosa che questa spedizione la costringe a rimpiangere?
«Si ed è ovviamente la mia famiglia e, in particolare, il mio figlio più piccolo Jonas che ha solo due anni. A questa età i bambini cambiano in maniera repentina e anche se lo sento quasi quotidianamente via Skype, sono consapevole di perdermi delle cose importanti. Per questo non devo assolutamente pensare al fatto che il 27 marzo dovrò ripartire per l'Everest. Sono solo 50 giorni e a casa so già che non ne trascorrerò molti. Poi però vorrei fermarmi almeno per un anno, dedicandomi ad altri progetti e ai miei cari. Dopo 45 spedizioni credo proprio che sia arrivato il momento di farlo».

Emanuele Falchetti - L'Eco di Bergamo - Lunedì 06 Febbraio 2012 CRONACA, pagina 18

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