Pacì Paciana,
il Robin Hood della val Brembana
Anche la Val Brembana
ha dato rifugio a un Robin Hood, lungo i suoi sentieri. Vincenzo Pacchiana,
meglio conosciuto come Pacì Paciana, era nato il 18 Dicembre 1773
nell’attuale contrada di Poscante di Zogno. Conosciuto oggi nella bergamasca
come burattino, spesso in compagnia dell’inseparabile Giupì, fu in
verità un ladro di chiara fama, la cui peculiarità era quella di
rubare ai ricchi per donare ai poveri. Un personaggio leggendario, per alcuni
eroe e per altri brigante, riuscito ad affascinare e a riscuotere le simpatie
del proprio popolo, che con il passare degli anni lo ha soprannominato “ol
padrù d’la val Brembana”. Una leggenda fusa con la verità, raccontata per quasi
due secoli nelle valli bergamasche. Noi lasciamo la storia a chi se ne occupa
di professione e raccontiamo qui l’affascinante favola.
Una storia di
ingiustizia. La leggenda racconta che all’osteria del Pacì si presentarono una sera due
viaggiatori, i quali chiesero di cenare e pernottare. Poco prima di ritirarsi a
dormire pagarono il conto e comunicarono l’intenzione di alzarsi presto,
tuttavia preoccupati di non avere un orologio. Il Pacì, persona di buon cuore,
si offri di svegliarli all’ora prestabilita e lascio loro anche l’orologio del
suo povero padre. Il mattino dopo bussò alla porta della stanza per svegliarli,
ma di loro non c’era nessuna traccia. Paciana cercò ovunque l’orologio del
padre defunto, ma, non trovandolo, capì che era stato rubato dai due viandanti.
Uscito di corsa dall’osteria li raggiunse in prossimità del ponte sul Brembo.
Li fermò e chiese la restituzione dell’orologio, ma loro, fingendo di cascare
dalle nuvole, dissero di non sapere nulla. Allora il buon Paciana perse la
pazienza e prese uno dei due malfattori per il collo, mentre il secondo si
dava alla fuga. Con tutta la sua forza sporse il malcapitato oltre il parapetto
del ponte e lo tenne a penzolare nel vuoto, minacciandolo di lasciarlo cadere
nel fiume se non avesse confessato la verità. Il ladro si convinse a
restituire cosi l’orologio rubato, evitando una bagno nel Brembo ma
ricevendo comunque un sonoro schiaffone, a monito di quanto accaduto.
I due astuti
malandrini però, desiderosi di vendetta, si recarono dai gendarmi e
raccontarono invece di essere stati derubati dall’orologio proprio dall’oste,
entrato durante la notte nella camera mentre dormivano. I gendarmi credettero
alla versione dei due malfattori e fecero visita alla taverna del Pacì,
che invano tentò di difendersi dalle accuse, raccontando la sua versione dei
fatti. Il buon oste venne cosi dichiarato colpevole e messo in prigione per un
reato che non aveva assolutamente commesso. Scontata la pena e riacquistata la
libertà, Pacì Paciana giurò a se stesso di farsi ripagare dai torti subiti e
invece di riprendere la sua solita vita si diede alla macchia,
rubando alle persone ricche per aiutare i poveretti che vivevano in valle.
La fuga
riuscita. Si racconta che una notte ritornò di nascosto nella sua vecchia casa, dove
ormai non si faceva più osteria da tempo. Un paesano lo scorse sull’uscio e
pensò bene di recarsi a Zogno ad avvisare i gendarmi, che con molta cautela
circondarono la casa del Pacì armati di fucili e spingarde. Accortosi del
pericolo, il brigante non si perse d’animo: recatosi sul terrazzo si gettò nel
Brembo senza pensarci due volte, lasciandosi trascinare dalle acque del fiume
in piena sotto lo sguardo stupefatto dei gendarmi. Raggiunse la riva in
prossimità dell’attuale stazione e naturalmente riuscì a mettersi in salvo,
scegliendo come nascondiglio per la notte il pollaio del comandante delle
guardie, proprio di fianco alla caserma.
Un travestimento e
un’altra fuga riuscita. Pacì Paciana aveva anche un amico, a Bracca, che
spesso gli offriva rifugio durante la latitanza. La moglie del suddetto amico
aspettava un bambino, e il Pacì le aveva promesso che, se fosse stato un
maschio, gli avrebbe fatto da padrino al Battesimo. Nacque proprio un bambino
e, siccome la notizia si era diffusa in paese, tutti si aspettavano l’arrivo
del Paciana, abitanti e gendarmi compresi! Il giorno della festa Bracca si
riempì di curiosi, ma dell’inafferrabile brigante non vi fu traccia fino
all’inizio del corteo, quando una ragazza tra le urla ne annunciò l’arrivo e
dal fondo della strada apparve un individuo che sembrava proprio Pacì Paciana.
I gendarmi gli corrsero incontro per arrestarlo, ma si accorsero che non si
trattava del bandito, bensì del suo amico Nicola, vestito come lui. Mentre
il malcapitato venne interrogato il corteo raggiunse la Chiesa e un’anziana
signora si avvicinò alla coppia che reggeva il bambino, chiedendo di poterlo
accompagnare al fronte battesimale. Terminata la cerimonia, la madrina – come
avrete intuito si trattava del Pacì travestito – riconsegnò il piccolo
alla madre, non prima di avergli infilato sotto le fasce due pezzi d’oro. Si
portò poi in un’angolo buio della Chiesa e, toltosi gli abiti femminili, uscì
sul sagrato, chiamando a gran voce i gendarmi che ancora interrogavano il
povero Nicola. Poi si dileguò lungo il pendio della montagna
I soldi ai poveri, un
parroco sciocco e il salto nel fiume. Il più famoso episodio lo vede ritratto
sul Ponte di Sedrina. La storia racconta che il Pacì, trovandosi a passare in
quelle zone, vide una povera donna con in braccio un bambino in fasce che
piangeva. Il bandito le chiese cosa avesse e la donna rispose che il marito era
morto da poco, lasciandola con un nugolo di figli che non sapeva come sfamare.
Lui, commosso da queste parole, estrasse dalla tasca un marengo d’oro e lo
diede alla povera donna. Altre persone, sempre in misere condizioni, avevano
assistito alla scena e chiesero anch’esse la carità al buon brigante. Tutte
ottennero qualcosa. Tuttavia, il giorno seguente, il parroco di Sedrina durante
l’omelia rimproverò severamente quei paesani che avevano accettato denaro
da un simile bandito. Avvertito del fatto, Pacì Paciana si recò dal parroco,
spiegando che i soldi servivano alla povera gente che viveva in miseria per colpa
dei soprusi dei più ricchi. Ma, visto che il sacerdote non voleva saperne di
simili discorsi, estrasse la pistola e lo costrinse ad aprire il cassetto della
scrivania che conteneva una scatola piena di monete d’oro. Il Paciana spiegò al
parroco che quei soldi servivano più ai poveri che a lui e poi…
fuggì dalla finestra.
Scattò allora
l’allarme e il brigante, nell’inseguimento, si vide intrappolato tra due fuochi
sul ponte di Sedrina, dove il comandante dei gendarmi, ormai convinto di avere
preso in trappola il più leggendario dei banditi, gli intimò la resa dicendo:
«Anche le vecchie volpi si prendono». Il Pacì ribatté: «Le vecchie volpi sì, ma
non di questo pelo!» e, con questa leggendaria frase, sfuggì ancora una volta
alla cattura buttandosi tra i flutti del Brembo e lasciando le guardie con un
palmo di naso.
La morte del Pacì, per
tradimento. Intanto, grazie alle sue gesta, la sua fama cresceva e il Pacì era
diventato famoso non solo in Val Brembana, ma anche nelle valli limitrofe.
Erano sempre di più le persone che si rivolgevano a lui per ottenere la
giustizia che non potevano avere dall’autorità costituita. Ma anche per lui la
vita era diventata difficile. I gendarmi dei vari cantoni gli davano la caccia
e sulla sua testa pendeva una grossa taglia (100 zecchini se consegnato vivo,
60 se morto), che attirava in Val Brembana avventurieri di ogni specie, con la
speranza di catturarlo.
Purtroppo, a
complicare le cose, un pomeriggio d’estate, mentre riposava sotto a un’albero,
il Pacì venne morso da una vipera. Fortunatamente con lui c’era l’amico Nicola,
già compagno di avventure, che, soccorso prontamente il brigante, lo condusse
al sicuro in un casolare di Grumello. Pacì sfuggi ancora una volta alla morte,
ma il morso della vipera lo aveva debilitato a tal punto che si sentiva sempre
stanco e in pessime condizioni. Decise allora di lasciare per un po la sua
valle ed andare in Svizzera, ma la notizia arrivo all’orecchio di un altro
brigante, tale Carcino Carciofolo, che lo raggiunse a Gravedona, sul Lago di
Como. Fingendosi suo amico, lo uccise a tradimento mentre dormiva, tagliandogli
la testa e portandola alla Guardie di Bergamo, che la esposero sotto la
ghigliottina della Fara (nei pressi di porta sant’Agostino), a monito delle
genti. Era il 6 agosto 1806.
Finisce così la favola
di Pacchiana, oste dal cuore d’oro e poi brigante vendicativo, e inizia la
leggenda di Pacì Paciana, tramandata dai racconti popolari che ne hanno fatto
un eroe vendicatore dei torti e delle ingiustizie dei più forti.
Angelo Corna
Bergamo Post - 11 marzo 2017
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Venti scarponi e due cani
Sono a Zambla in un’estate dei primi
anni ottanta e con l’amico Paolo programmiamo di percorrere parte del Sentiero
delle Orobie: la parte più spettacolare dal Rifugio Brunone al Rifugio Curò.
Partenza da Fiumenero e arrivo a Valbondione.
Paolo con la figlia Barbara, coetanea di
Mariagrazia e il sottoscritto con Gabriella, mia moglie, e le figlie
Mariagrazia e Barbara rispettivamente di anni tredici e dieci.
Decidiamo di parcheggiare un’automobile
a Valbondione, case Grumetti, presso la Centrale Elettrica, alla testata della
valle, e lasciamo l’altra a Fiumenero.
Iniziamo il sentiero per il Brunone in
mezzo al bellissimo bosco che costeggia il torrente, freschi ed entusiasti. Le
tre ragazze parlottano tra loro mentre noi tre adulti, carichi come some,
cerchiamo di procedere con il passo lento e costante del montanaro. Ci
attendono almeno altre tre ore di cammino con la seconda parte che prevede il
dislivello più faticoso.
Al Pian del Aser ci fermiamo per una
breve sosta e un leggero spuntino per recuperare le forze. Accanto alla base di
partenza della funivia che trasportava i rifornimenti al Rifugio Brunone trovo
un ferro di mulo, ben conservato e lo metto nello zaino. Oggigiorno ci pensa
l’elicottero.
Mi porterà fortuna – penso.
Mentre il resto della “truppa”, si
rifocilla saggiamente con zuccheri accompagnati da carboidrati (pane). Il
sottoscritto scioccamente si limita a sgranocchiare un pezzo di cioccolato.
Errore che pagherò poi..
L’ultima rampa, come dicevo dianzi, è
quella che richiede maggior fatica. Il sentiero s’inerpica lungo il costone
mentre in alto appare, prima piccolo e poi, via via salendo, più grande e
distinguibile, la meta della giornata: il Rifugio Brunone.
Un centinaio di metri prima d’incrociare
il sentiero che scende, sulla sinistra, dal Passo di Valsecca inizia ad
annebbiarsi gli occhi; la fatica, lo zaino diventa pesantissimo ma,
soprattutto, la sciocchezza di non essermi rifocillato abbastanza in
precedenza, mi mette in ginocchio. Sono l’ultimo della compagnia e arranco con
un fiatone da bufalo mentre vedo chi mi ha preceduto salutarmi dall’alto con
parole d’incoraggiamento, almeno presumo dai gesti che mi rivolgono.
Stremato, arrivo con una buona mezzora
dopo di loro e prima di proferire parola mi siedo sulla panca accanto
all’ingresso. Finalmente sono arrivato!
Il rifugista ci mostra la camera e i
letti per la nottata. Dopo un’occhiata sommaria ma espressiva delle femmine,
alla vista di quelle reti cigolanti, somiglianti ad amache da isola tropicale,
unanimemente decidiamo di scegliere il pagliericcio dell’invernale con sorpresa
dell’ospitante.
Cena abbondante e scambio di opinioni
con gli altri ospiti del rifugio come noi diretti al Coca. Qualcuno inizia a
descrivere le difficoltà che ci attendono il giorno successivo, enfatizzando le
difficoltà di due “passaggi”: il primo relativo all’attraversamento della
Vedretta dei Secreti, ancora innevata dalle slavine invernali, e il secondo, il
canalino con corde fisse che scende a picco sul Lago di Coca.
Gabriella ne è impressionata e ogni
tanto scruta la mia espressione.
Ecco, mi avevano tenuto all’oscuro dei pericoli, – sicuramente pensa -
incosciente con due figlie la seguito.
Abbozzo, cercando di minimizzare i
racconti degli altri e, fortunatamente, anche Paolo mi sostiene. Per sciogliere
il clima di tensione, un giovane che si presenta come esperto del CAI e che
percorre il nostro stesso sentiero, rassicura Gabriella e le ragazze che il
giorno successivo ci terrà d’occhio, intervenendo in caso do difficoltà. Decidiamo
di coricarci.
Nell’invernale oltre a noi sei sono
presenti due pastori che accudiscono un gregge di pecore nelle vicinanze e i
loro due cani.
Allineati ai nostri piedi: venti
scarponi e due bellissimi e imbrattatissimi cani pastore bergamaschi.
Due cani e venti scarponi: “Due gocce di
Chanel !”.
Il mattino riprende il sentiero che si
snoda in salita e a mezza costa da vallone in vallone. Ci accorgiamo che il
giovane del CAI, che ci precede, mantiene la promessa fatta e dal costone
successivo ci osserva mentre superiamo quello precedente. Rassicurati da questo
“angelo custode”, procediamo con sicurezza anche nell’attraversamento della
slavina della Vedretta dei Secreti raggiungiamo il Simal, la quota massima del
percorso a 2822 metri di altitudine.
Ora ci aspetta la discesa al Rifugio
Coca tramite il canalino dotato di corda fissa. Seicento metri più in basso.
Dopo aver spiegato il metodo sicuro per
affrontarlo: zaino rivolto a valle e occhi verso la parete procediamo con
cautela e una certa apprensione. Il piccolo laghetto di Coca ci accoglie con unanime
soddisfazione e grossi sospiri di sollievo da parte di Gabriella.
Accanto al laghetto il nostro angelo
custode ci attende, si complimenta con una stretta di mano e riparte con passo
spedito: lui al rifugio non si ferma e prosegue per il Curò.
Questa volta non ci attende il
pagliericcio dell’invernale ma un letto decente …. ma nel sottotetto. Per le
ragazze anche questa è un’avventura sulla quale ridere e divertirsi
specialmente nella notte ascoltando il rumore delle zuccate contro il
sottotetto di legno di coloro che, dimenticando dove dormono, si alzano di
scatto per andare ai servizi.
Il mattino successivo, con una buona
colazione nello stomaco, ci avviamo verso il Rifugio Curò, ultima tappa prima
del rientro a Zambla.
Ci rallegra il pensiero che questa notte
dormiremo nei nostri letti, senza profumo di Chanel, senza il rischio di
zuccate nel controsoffitto e soddisfatti della felice conclusione dell’
“impresa”.
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Santiago
E’ il mitico
mandriano che durante l’estate conduce la mandria ai 1800 metri della baita
Zuccone e, in perfetta solitudine, l’accudisce. In verità, proprio solitario
no, è sempre accompagnato dai suoi fedeli pastori bergamaschi pronti al suo comando
a intervenire in caso di necessità.
Santiago possiede ancora l’abitazione e una stalla a
Zambla Bassa, in contrada Vidali, ma in paese si vede solo nei mesi di maggio e
giugno prima di transumare allo Zuccone. In inverno si trasferisce, con tutte le
sue bestie, a Bossico.
La baita Zuccone è situata proprio sul sentiero che
conduce a Camplano, tra le pendici orientali dell’Arera e quelle occidentali
del Grem, e passando da quelle parti non puoi fare a meno di salutarlo e scambiare
quattro chiacchiere. Così come diventa difficile rifiutare l’offerta di un
caffè che immancabilmente ti offre.
Sono gli ultimi pascoli alla base della piramide
granitica dell’Arera.
Durante la transumanza da Zambla Bassa allo Zuccone,
Santiago, in passato, percorreva il sentiero che dalla Plassa sale alla baita
Merlàs, seguito dai muli che trasportavano le provviste. Dopo la costruzione di
una strada sterrata, silvo – pastorale collegata a quella che sale al rifugio
Capanna 2000, il compito di rifornirsi periodicamente è affidato a un
fuoristrada.
Anche
i “solitari” beneficiano del progresso.
La baita è piccola; entrando, sulla sinistra, il grande
paiolo utilizzato per la preparazione dei formaggi, di fronte i fornelli per
cuocere le vivande con sopra qualche vecchio armadietto, un lettino sulla
destra e alcuni attrezzi appesi alle pareti. La convivenza padrone/cani è
evidente.
Ma
non è il caso di sofisticare.
Potrà sembrare contraddittorio il suo carattere
solitario con l’ospitalità e la cordialità con cui accoglie gli escursionisti
che passano e che, con evidente curiosità, “sbirciano” l’interno della baita
dall’ingresso sempre aperto.
Santiago con la sua lunga barba e con il tipico copricapo
da mandriano è diventato uno dei “miti” dell’Arera.
Parecchi anni orsono fu il protagonista di un
lungometraggio dedicato ai malgari che durante la stagione estiva soggiornano
negli alti pascoli delle nostre montagne. Il filmato, interpretato di “attori”
dilettanti residenti in valle, tra i quali mi piace ricordare Beniamino di
Zambla Bassa da poco scomparso, nel tratteggiare l’ambiente e le fatiche dei
mandriani ricordava una vera “storia” accaduta: il morso di una vipera e le conseguenze
subite da Santiago tra il deliquio e l’incubo. La naturalezza con la quale i
valligiani interpretarono il “soggetto” mi lascia, ancor oggi, esterrefatto.
Apro una parentesi per ricordare Beniamino.
Risiedeva a Zambla Bassa nella casa proprio di fronte
alla chiesetta di Santa Lucia, ricevuta in eredità dalla sua famiglia; quella
in cui erano conservati gli ex voto, oggetto di una mostra nel 2014 presso
l’Oratorio della Frazione.
Lo incontravo tutte le mattine recandomi ad acquistare
il Quotidiano e mi soffermavo con lui, e il suo inseparabile amico Luigi,
fratello del Battistì, a commentare i titoli e le notizie riportate. Una
consuetudine che si perde nel tempo, da quando soggiorno a Zambla Bassa nel
periodo estivo.
Lo scorso anno, a Bergamo, leggendo lo stesso Quotidiano
appresi che Beniamino aveva raggiunto altri pascoli, ancor più alti, quelli del
cielo. Ne fui addolorato, un altro amico che non avrei più rivisto. E, ancor
oggi, passando davanti a quella panca vuota ne sento la mancanza.
Chiusa la triste parentesi del Beniamino e riprendendo
il racconto su Santiago, lo ricordo seduto su quegli sgabelli tipici del
mungitore (con un’unica gamba centrale) mentre munge in mezzo alla mandria
comandando, di volta in volta, ai suoi cani quale mucca scegliere per la
successiva mungitura.
Ordine eseguito alla perfezione dai cani dagli occhi
bicolori.
Altri mandriani e altre baite esistono nella zona, ma Öl
Santiago e la sua baita allo Zuccone sono unici.
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Il “pratone”
Luogo di aggregazione di nonne e nonni con nipoti, mamme
con bimbi nei passeggini, appassionati di tennis, persone che vogliono
sperimentare il percorso avventura predisposto tra gli alberi dell’abetaia
circostante e buontemponi che sorseggiano bibite o si gustano un gelato al
Centro Sportivo Valle.
Questo è il pratone, una grande radura erbosa sul Colle
di Zambla, dalla quale si gode un bellissimo panorama verso la Valle Seriana e,
dall’altro lato verso le cime dell’Alben, compresa quella orientale, la più
alta, non visibile da Oltre il Colle.
Dotato di tavoli e panche in legno con accanto alcuni
giochi per i più piccini: altalena, scivolo, cavallo a dondolo (stile moderno),
ha un unico neo: l’assenza di servizi igienici pubblici (ne basterebbero un
paio ); è frequentato da famiglie di villeggianti che soggiornano anche a
Serina e non solo nella Conca di Oltre il Colle.
I tavolini allineati ai bordi sono accaparrati da
gruppetti di nonne dedite al gioco del burraco, molto praticato al sud, mentre
i nonni, vigili guardiani dei piccoli eredi, in pantaloncini corti che mostrano
retaggi di antiche muscolature sportive, parlottano distrattamente sempre con
l’occhio vigile.
Nonni pronti a intervenire con balzi felini (si fa per
dire) per impedire che i palloni, calciati dai pargoletti pallonari, non
finiscano in strada.
La
sera accuseranno dolori da strappi agli adduttori femorali, lamentandosi con le
rispettive consorti per il gravoso ruolo al quale sono chiamati a svolgere.
Le ragazzine improvvisano corse a rimpiattino sciamando
con vocalizzi stridenti lungo il prato, mentre il gruppo di età maggiore si
avvia, Smartphone alla mano, verso il bar del Centro Valle servito
gratuitamente da Wi Fi, per scambiare messaggini e “whatsapp” con gli amici in
altri luoghi di villeggiatura.
Metodo
intelligente del commerciante per attrarre la clientela.
Seduti ai tavolini, disposti sul terrazzo del bar,
alcuni assistono alle partite di tennis che si svolgono nel sottostante campo
di gioco, assaggiando le specialità giornaliere, come ad esempio i lamponi o
fragoline con panna. Altri ancora con bicchieroni colmi di gelato guarnito di
bandierine e ombrellini orientaleggianti.
Il sabato e la domenica, il “pratone” è invaso dai
cosiddetti “domenicali”, famiglie che arrivano al mattino dalla pianura,
stendono plaid e accappatoi sull’erba, consumano le vivande portate da casa e
si sdraiano al sole per ridare tono all’abbronzatura acquisita in precedenza in
un breve soggiorno al mare.
Alcune
malelingue sussurrano che la preparazione avvenga non al mare, bensì, nei
centri di abbronzatura; solo invidia nel vedere giovani signore con la pelle
ambrata in costume da bagno.
Sul tardo pomeriggio, i domenicali, raccolgono la loro
mercanzia, la ripongono nell’auto parcheggiata il mattino, e tornano al piano.
In poco tempo sul pratone torna il silenzio, riappare tutto il tappeto erboso
verdeggiante mentre l’aria spazza gli ultimi effluvi di creme solari al cocco.
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La sciura Clelia
«Al va a piöf – diceva ad alta voce, scuotendo il capo, la Clelia, l’anziana
signora che durante l’estate teneva
aperto il rifugio SABA in Arera – tira aria dé acqua».
Per coloro che affollavano il praticello davanti al
rifugio e non la conoscevano, questa frase incuteva la preoccupazione di
prendersi una bagnata scendendo a valle e, conseguentemente, acceleravano il
ritorno.
Per noi, che ormai da anni eravamo “di casa” al Saba,
era uno spasso ascoltarla e osservare l’agitazione che procurava agli ignari
escursionisti che, dopo il pic nic, si godevano il sole sdraiati sull'erba del prato
attorniati da bambini urlanti. Ammiccavamo, approvando con il cenno del capo,
le sue “previsioni catastrofiche”.
Clelia era fatta così, gentile e disponibile con coloro
che rispettavano l’ambiente di montagna, la quiete e l’educazione; severa e
spigolosa con chi queste regole non le osservavano.
Teneva il rifugio e il prato antistante, come fosse casa
sua; sempre puliti e in ordine.
Per il nostro gruppo, composto di alcuni “compaesani” di
Città Alta, aveva una particolare debolezza: non rifiutava mai la richiesta di
un piatto di pastasciutta, un bicchiere di vino o di una bottiglia di acqua
minerale. Se non aveva il prodotto in dispensa, ci consegnava le chiavi della
cantina (l’ingresso di una galleria di miniera adiacente al rifugio) e
c’invitava a rifornirci.
Con la Clelia si parlava di Bergamo Alta, di conoscenze
comuni come fossimo vecchi amici.
Di lei ricordo anche un’altra facezia. Alla richiesta,
da parte di estranei, di poter usufruire dei servizi igienici, rispondeva: «Là
‘nfont, scecc, dre i piante» (la in fondo, ragazzi, dietro le piante),
indicando un gruppo di alberi lontano dal rifugio.
Inevitabilmente al ritorno, i disgraziati che non avevano
trovato altro che erba e cespugli, la guardavano delusi e con fare
interrogativo senza commentare.
Anche
questa volta il servizio igienico del Saba era salvo.
Rimasi per alcuni anni senza poter salire da lei, e
quando lo feci, trovai il figlio al posto della Clelia. Lei aveva lasciato la
vita terrena e, sono sicuro, dall’alto sovrintendeva ancora il suo rifugio con
annesso fraticello.
Lo scorso anno accompagnai mio fratello Carlo al Rifugio
Saba. Alcune persone erano sedute sui muretti attorno all’entrata, la maggior
parte abitanti di Città Alta. Rievocammo la signora Clelia, che tutti avevano
conosciuto, e a quei ricordi l’emozione era tangibile su tutti i volti.
Poi, quasi all’unisono, pronunciammo la celebre frase: «Al
va a piöf» e altrettanto all’unisono ci mettemmo a ridere!
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Aperitivando
Oggi pomeriggio, ho sostato alla “Piccola Parigi”, un
bar, con annesso campeggio, di Zambla Alta. Mentre assaggiavo l’aperitivo, mi
sono ricordato di avere in archivio, una vecchia fotografia, della località risalente
agli inizi del secolo scorso, Inoltre ho pure rammentato un articolo di Pino
Capellini, pubblicato si L’Eco di Bergamo il 26 luglio 2013, nel quale si descrivevano
le vicissitudini di tre fratelli Tiraboschi, originari di Zambla Alta, emigrati
in Argentina, accompagnato dalla succitata immagine.
Pubblico parte dell’articolo, oggetto dei miei
ricordi, e la foto d’accompagnamento.
“Agostino e Francesco Tiraboschi di Zambla Alta. I tre fratelli di Zambla Alta”
Nei paesi delle «vedove bianche» a casa restavano solo le donne, i vecchi e
i bambini.
Il fenomeno maggiore era rappresentato dalla migrazione stagionale verso la
Svizzera e la Francia, con tanti clandestini che cercavano di sfuggire alla
sorveglianza delle guardie di frontiera e che ritentavano ad ogni stagione; poi
c’era chi lasciava tutto e andava oltre l’oceano: intere famiglie, di cui a
volte non si sapeva più nulla. Dai pulpiti i parroci mettevano in guardia
contro personaggi che giravano per le cascine ad ingaggiare la gente.
Diffidate, raccomandavano, sono mercanti di carne umana. Nessuno ingaggiò
Agostino e Francesco Tiraboschi.
Riesce difficile capire i motivi della decisione di prendere la valigia. La
loro era una bella famiglia come si vede dalla fotografia, scattata nel luglio
del 1929 e che compare tra le illustrazioni del libro.
Contadini, poveri, ma con un certo decoro. Ma erano anni difficili, della grande crisi economica.
«In Argentina si guadagnavano soldi facilmente e il lavoro abbondava dappertutto.
Contadini, poveri, ma con un certo decoro. Ma erano anni difficili, della grande crisi economica.
«In Argentina si guadagnavano soldi facilmente e il lavoro abbondava dappertutto.
Con queste cose in testa, decidemmo di partire». Per i fratelli Tiraboschi
la parola chiave era «lavoro». Ela troviamo quasi ovunque nelle pagine delle
memorie che Agostino Tiraboschi si accinge a scrivere nel 1978 riempiendo con
una calligrafia molto chiara i ventisette fogli di grande formato; le
correzioni sono rare, lo scrivere è fluido, il che fa ritenere che il
manoscritto sia una trascrizione in bella copia di appunti su un
«quadernetto» dove Agostino incominciò ad annotare gli eventi dal suo
arrivo in Argentina.
Il ritrovamento di questo prezioso documento non è stato casuale. Da tempo
il Centro Studi Valle Imagna sta conducendo ricerche sull’emigrazione, con
particolare riferimento alla Valle Imagna. Durante una indagine in Argentina,
nella città di Cordoba avvenne il contatto con alcuni figli di Agostino
Tiraboschi che ancora oggi vivono nel Paese sudamericano e che misero a
disposizione il diario.
In particolare Victorio Tiraboschi è l’autore del testo che fa da introduzione al libro delle memorie dei due fratelli, curato da don Massimo Rizzi, direttore dell’Ufficio migranti, e da Antonio Carminati, direttore del Centro Studi.
L’angoscia della partenza Era la mattina dell’8 gennaio del 1931 quando
Agostino e Francesco si avviarono per la strada che da Oltre il Colle scende a
Ponte Nossa per prendere il treno. Di fronte alle lacrime della mamma, dei
fratelldei parenti, mentre l’angoscia cresceva ad ogni passo lasciarono il
paese «simulando contentezza» nei confronti dei loro cari e degli amici.Fu
l’inizio di un lungo cammino che non si interruppe mai, fin quando l’Argentina
divenne la loro seconda patria.
La terra in cui vissero, tirarono su le rispettive famiglie, dove sono sepolti
e dove figli e nipoti ne conservano la memoria.
Dal momento in cui mossero i primi passi dal borgo natio, ogni giorno fu
una prova molto dura. Il distacco, i cambiamenti, l’incontro con realtà
profondamente diverse:
la nave, il mare che non avevano mai visto, la gente (il primo incontro con un
dialetto che non era il bergamasco: erano a Napoli, «non capivamo una parola»),
il viaggio interminabile, l’Argentina, Buenos Aires, l’hotel degli immigrati
con le cimici e i pidocchi. E poi l’impatto con una terra che avrebbe
dovuto dare loro un lavoro ma dove quel lavoro, per il quale avevano dato addio
a tutto, non c’è.
E se c’è, non ha quella dignità in cui i due fratelli, montanari di una
tenacia tutta bergamasca, credono per incominciare a costruire il loro futuro.
Una terra che non si può definire ostile; pesa più di tutto l’indifferenza: gli
altri, compresi i compaesani in cui si imbattono ogni tanto, non ne comprendono
i problemi, i bisogni, le sofferenze.
Le pagine del memoriale vanno ben oltre il diario di fatiche, privazioni,
sacrifici oggi inimmaginabili. Sono la testimonianza di valori, di scelte, di
forza morale, di una fede profonda, vissuta in ogni momento. Bella la storia di questi due fratelli uniti da un
legame che nei momenti peggiori si fa ancora più saldo e che consente di
superare anche le prove più dure. Quando «afflizione e disperazione arrivavano
all’estremo» Agostino piange e prega di nascosto da Francesco, per non turbarlo
e non aumentare le sue sofferenze. Non si separarono mai
Tratto da un articolo di PINO CAPELLINI e pubblicato su L'Eco di Bergamo - 29 luglio 2013
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Domenica mattina
Non sono
ancora le sette, Cleo mi ha dato la sveglia con un bacio appiccicoso, è il suo
metodo per farti alzare dal letto, agita la coda e m’invita a uscire sul
terrazzo.
La giornata
è splendida, sebbene la temperatura, durante la notte, sia scesa a quattordici
gradi e una brezzolina mi consiglia la giacca di pile. Il sole illumina le
vette delle montagne circostanti e l’aria è tersa.
Sulla strada
che conduce al parcheggio dell’Arera, proprio sopra il rifugio rosso della
Saba, diverse auto stanno salendo e le distinguo grazie ai raggi del sole che a
ogni curva colpiscono i loro vetri laterali. Il parcheggio si sta riempiendo;
sarebbe un vero peccato perdersi un giorno come oggi per salire alla Capanna
2000, dove ti accoglie la proverbiale ospitalità di Patrizia e Attilio, i
rifugisti, per una prima colazione a base di splendide torte e aroma di caffè,
per poi magari proseguire con una salita in vetta all’Arera o per percorrere il
Sentiero dei fiori.
Il paese è
ancora addormentato, nessuna finestra aperta, nessuna “scatola di sardine” in
strada e il profumo dell’erba dei prati falciati ieri riempie l’olfatto e i
polmoni.
Guardo verso
il Menna, oggi si celebra l’annuale festa al Rifugio Maga e, a quest’ora, molti
appassionati saranno già in cammino lungo l’erto sentiero che partendo da
Zorzone lo si raggiunge in un paio d’ore.
Rientro in
casa, faccio colazione e avverto il rumore dell’elicottero che inizia a
trasportarne, partendo dal “pratone” del Colle di Zambla, i “debosciati”
turisti al Rifugio, attratti solo dalla grigliata di mezzogiorno.
Il via vai
del velivolo indica che la categoria è numerosa e – riflettendo – penso che
magari anche il panorama della Conca, visto dall’alto, sia uno spettacolo da
non perdersi (pecunia permettendo).
Invidia repressa con una tazza di
The.
Vado ad
acquistare il quotidiano, accompagnato da Matteo, e sono avvicinato da una
signora: «Lei è Sangalli – mi chiede con tono che non ha bisogno della mia
risposta affermativa - sono Ornella, una sua amica di Facebook, e faccio parte
del Gruppo Amici della Conca di Oltre il Colle».
Afferma che
segue giornalmente le notizie che pubblico e che apprezza le “cazzeggiate” (il
termine è mio) che mi diverto a scrivere.
Intima soddisfazione da “adulato” che
cerco di non lasciar trasparire.
La strada è
ancora deserta ma come arrivo in prossimità della parrocchiale comprendo il
motivo: l’intera popolazione di Zambla, villeggianti compresi, sta uscendo; era
tutta a Messa.
Buongiorno,
ciao, bella giornata. Qualcuno, esagerando, augura addirittura: buon appetito.
Si, va bene, siamo montanari, ma il “buon
appetito” alle dieci e mezzo del mattino mi pare eccessivo.
Mi avvio
verso casa, il quotidiano è come il pane: “ è buono fresco” e se non leggo le
notizie riportate, rimango assente dalla vita del Mondo.
Come se me ne fregasse !
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Il mercato
Oggi è
giorno di mercato a Serina, una visita veloce, Gabriella, non se lo perde. Matteo
ed io, rassegnati, la seguiamo.
Gabriella,
Alida e Matteo scendono in prossimità del mercato, io, come sempre vado alla
ricerca del parcheggio e, caso strano, riesco a trovarlo non molto lontano.
M’incammino
per raggiungere il trio e inizio a “scartare” mamme con carrozzine, nonne che
si scambiano commenti sugli acquisti testé fatti e nonni carichi come muli che
le seguono con passo stanco.
Le bancarelle
non sono moltissime e tutte affollate. Matrone di una certa età, (paragonabili
a quelle di razza germanica, in larghezza, ma, purtroppo, la razza italica, non
le raggiunge in altezza) indugiano davanti alle bancarelle che espongono abiti,
“palpeggiando” la merce sotto il vigile sguardo dell’ambulante che attento al
minimo accenno di soddisfazione della cliente, interviene specificando la
composizione della merce e il prezzo o proponendo alternative più o meno
simili.
I bambini
affollano la bancarella del cibo per animali. In una voliera cinguettano,
bisticciando, una ventina di cocorite, ma la loro attenzione è attratta dalla
vaschetta con le tartarughine d’acqua. Poco oltre la solita esposizione di
giocattoli “plasticosi” non ottiene la stessa curiosità.
I nonni,
accompagnatori si soffermano davanti alle bancarelle che espongono cibo,
salami, formaggi, vasetti di acciughe sott’olio e di sughi per condire. Ma
attendono sempre il consenso femminile prima di ardire un acquisto. Solo quando
la consorte si avvicina e, con sguardo indagatore, sceglie, il loro viso si
rischiara permettendosi qualche timido consiglio (spesso inascoltato: questo
non lo puoi mangiare! – oppure – prima finiamo quello che abbiamo a casa!
Sconsolato,
o più o meno soddisfatto, il meschino riprende la lenta processione portandosi
appresso le due pesanti borse degli acquisti precedenti.
Nell’aria
persiste un olezzo di fritto. Pesce naturalmente, uno schiaffo in faccia ai
montanari affezionati a quello della polenta taragna e costine alla brace.
La solita
bancarella di extracomunitari che vende tutto a un euro, sopperisce la
sparizione dei vecchi bazar dove potevi trovare di tutto e di più.
Incombe
mezzogiorno e la gente inizia a sfollare. Le coppie, moglie davanti con borsetta
al braccio, marito dietro con un sacchetto (voluminoso) in ciascuna mano.
Dal
rispettivo sguardo cogli su l’uno la soddisfazione per gli acquisti della
mattinata e, sull’altro, un misto tra il sollievo di aver terminato il
supplizio del mercato e la fatica nel portare il “bottino” con due sacchetti pesanti
con manici taglienti che ti segnano il palmo della mano.
Finalmente
la tortura del giorno di mercato è sul volgere del termine.
Nota di
colore:
In fondo
alla scaletta che dal mercato conduce al centro di Serina, un giovane
extracomunitario, appoggiato al muro, tende la mano chiedendo, timidamente, un
euro. Ma è “trasparente”, nessuno lo degna di uno sguardo.
Non ha nulla
da offrire, solo la sua fame.
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Cose che
capitano.
Da ragazzo,
nella prima metà degli anni cinquanta, durante il periodo estivo trascorrevo le
vacanze a Cusio.
Il paesino
era piccolo e non aveva locali nei quali, noi ragazzi, potessimo ritrovarci per
divertirci. Il luogo del raduno serale era il sagrato della chiesa, con un
fraticello e il muretto dal quale si poteva vedere la valle e le montagne sopra
Piazza Brembana.
La più
bella, quella che al tramonto si colorava di rosa e che attirava l’attenzione,
era il Monte Menna. Il lato ovest della montagna, a picco sulla valle,
rifletteva il colore rosato del sole al tramonto specialmente quando i suoi
raggi erano filtrati dalla foschia serotina.
Alcuni di
noi avevano frequentato, in precedenza, la zona di Oltre il Colle e
descrivevano i sentieri che avevano percorso per salire sia al Menna sia
all’Arera. La partenza era rispettivamente da Oltre il Colle, per il Menna e
Zambla Alta per l’Arera, ultimi avamposti raggiungibili con mezzi pubblici e
poi… a piedi sino alla vetta.
Ovviamente
chi narrava queste esperienze evidenziava le ore di cammino, le difficoltà dei
sentieri e, in particolare per il Monte Arera, la pericolosità della salita,
nel caso si fosse colti da temporali, per la caduta di fulmini attratti dalla
concentrazione di minerale nel suo sottosuolo.
Non avrei
mai supposto che una ventina di anni dopo avrei acquistato casa proprio nella
Conca di Oltre il Colle, ai piedi delle due montagne fonti di tanti avventurosi
racconti dei miei amici di villeggiatura.
Le vette del
Menna e dell’Arera . anni dopo, le ho raggiunte in più occasioni e i “famosi e
temuti” temporali con fulmini saettanti ho avuto modo di osservarli sia da casa
mia sia dalle finestre del rifugio Capanna 2000, seguiti da tuoni che
rimbombano in tutta la Conca.
E ogni volta
che accade, ripenso alle serate sul muretto di un sagrato di una chiesa a
raccontarci “cose” che ti possono capitare e, alle quali, puoi assistere.
Come oggi !
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In ricordo di mio padre
Era un appassionato della montagna e la sua passione me la trasmise sin da ragazzo. Ho avuto modo di raccontare le escursioni in sua compagnia durante le vacanze estive in quel di Cusio. Non si limitava a propormi “camminate” ma coglieva l’occasione per farmi conoscere la montagna, apprezzare i panorami, spiegarmi la flora e la fauna che l’abitava. Spesso facevamo pause nelle radure erbose, ombreggiate dagli alti pini e abeti che la circondavano, cogliendo l’occasione per narrarmi le sue “avventure” nelle nostre valli.
Durante queste narrazioni mi descrisse una sua salita alla Presolana, fatta mentre soggiornava un’estate presso la Casa Estiva dei dipendenti della Dalmine a Castione.
Aveva seguito il percorso normale,
partendo dalla Grotta dei Pagani, risalendo il canale franoso e instabile che
portava in vetta. Era preceduto da una compagnia di seminaristi provenienti dal
Seminario di Clusone, ragazzi inesperti e poco attenti al normale e attento
comportamento di chi precede altri escursionisti in simili situazioni.
La conseguenza erano le continue “scariche” di sassi, alcune anche di notevole dimensione, che dopo averle provvidamente evitate, lo consigliarono di assumere un atteggiamento più prudente allungando la distanza che lo separava dal “gregge”.
La conseguenza erano le continue “scariche” di sassi, alcune anche di notevole dimensione, che dopo averle provvidamente evitate, lo consigliarono di assumere un atteggiamento più prudente allungando la distanza che lo separava dal “gregge”.
Alla fine, raggiunta la cima, mi
descrisse il maestoso panorama che da lassù si presentò alla sua vista: un
balcone affacciato sulle Prealpi e, in lontananza, sulla catena delle Alpi
lombarde.
Ovviamente il racconto mi aveva “preso” e la fantasia aveva fatto si che mi proponessi di emulare questa sua avventura e mi ripromisi di riuscire in breve tempo a ripeterla.
Ovviamente il racconto mi aveva “preso” e la fantasia aveva fatto si che mi proponessi di emulare questa sua avventura e mi ripromisi di riuscire in breve tempo a ripeterla.
Purtroppo, negli anni successivi, non
riuscii mai a realizzarla, distratto da altre avventure ed escursioni sulle
cime che via via mettevo in cantiere nei miei programmi di montagna.
Molti anni dopo mi si presentò l’occasione. Con alcuni amici, con i quali soggiornavo durante l’estate a Zambla. Alcuni di loro non avevano mai visitato la Grotta dei Pagani e, cogliendo quest’occasione, mi riproposi di raggiungere questa benedetta vetta.
Partimmo un mattino con Gianni, sua nipote, Angelo e Paolo. Raggiunto l’Albergo Grotta, vecchio punto di partenza per tutti gli escursionisti diretti alla vetta, lasciammo l’auto e procedemmo verso la Baita Cassinelli e successivamente, raggiunta la Capella Savina, arrivammo alla famosa Grotta.
Molti anni dopo mi si presentò l’occasione. Con alcuni amici, con i quali soggiornavo durante l’estate a Zambla. Alcuni di loro non avevano mai visitato la Grotta dei Pagani e, cogliendo quest’occasione, mi riproposi di raggiungere questa benedetta vetta.
Partimmo un mattino con Gianni, sua nipote, Angelo e Paolo. Raggiunto l’Albergo Grotta, vecchio punto di partenza per tutti gli escursionisti diretti alla vetta, lasciammo l’auto e procedemmo verso la Baita Cassinelli e successivamente, raggiunta la Capella Savina, arrivammo alla famosa Grotta.
Gianni sua nipote e Angelo non se la
sentirono di proseguire oltre e, mentre si rifocillavano, Paolo ed io decidemmo
di raggiungere la vetta.
Mentre salivo, rammentavo il racconto di mio padre e mi pareva di averlo accanto mentre riscontravo le indicazioni che, a suo tempo, mi aveva fornito circa le difficoltà, in verità non eccessive se non quella concernente la prudenza, per salire con tranquillità e sicurezza la montagna.
Mentre salivo, rammentavo il racconto di mio padre e mi pareva di averlo accanto mentre riscontravo le indicazioni che, a suo tempo, mi aveva fornito circa le difficoltà, in verità non eccessive se non quella concernente la prudenza, per salire con tranquillità e sicurezza la montagna.
Con Paolo arrivammo abbastanza
velocemente sulla cima. Eravamo molto allenati e non faticammo eccessivamente e
lassù trovammo un solo escursionista: un anziano ultra settantenne che ci aveva
preceduto e che stava sgranocchiando pane e salame. Era un tipo alto e asciutto
e il suo fisico denotava la sua abitudine alle camminate in montagna. Ci
scambiammo alcune frasi sulle bellezze che ci circondavano e poi scendemmo
velocemente per raggiungere gli altri amici che ci attendevano in basso.
Rimasero sorpresi per il breve tempo che era intercorso tra la nostra partenza
e il ritorno e mentre, anche da parte nostra, ci rifocillava, spiegammo
l’itinerario e il panorama che da lassù avevamo ammirato grazie anche alla
bella giornata, priva di nubi e con l’aria limpida e tersa.
Pensai a mio padre e alla promessa che
avevo fatto a me stesso anni prima: l’avevo mantenuta e ne ero soddisfatto.
Mentalmente lo ringraziai per avermi trasmesso la passione dell’alpinismo e per
quel racconto che mi aveva spinto a emularlo. Con il Pizzo dei Tre Signori, la
Presolana fu la seconda cima che condivisi simbolicamente con il mio genitore
sia pure in tempi diversi.
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Scale a
scomparsa. Come tutelarsi dai briganti.
Dalla Cà di
Rés al Grensölì, alla ricerca del passato.
“Quater pass per fas la gamba”, (traduzione per i non
bergamaschi: quattro passi per fare allenamento.) e oggi, con Gabriella
ovviamente, decido di percorrere il “periplo” di Zambla Bassa.
Partiamo dalla chiesetta di Santa Maria Maddalena e
percorriamo via Cà Rizzi sino a inoltrarci nel sentiero che conduce alla Cà del
Töne. Il percorso è molto bello e s’inoltra nel bosco poco dopo la vecchia
abitazione. La pendenza, nel bosco, è agevole e le foglie che cospargono il
sentiero soffocano il calpestio. In lontananza, in fondo alla valle, si ode lo
scrosciare dell’acqua nel Parina, il torrente che scende dalla valle del Monte
Vetro.
Terminata la discesa, laddove il sentiero si spiana, il
bosco si apre sui pascoli che circondano la Cà di Rés (Cà Rizzi) con, sullo
sfondo, Zorzone con Menna alle spalle.
Cà di Rés, fu la prima contrada, vera e propria, di Zambla
Bassa a essere abitata e, come afferma Sergio Fezzoli nel volume “C’era una
volta…” di Cristian Bonaldi, era stata costruita in un posto nascosto perché
gli abitanti si sentivano al sicuro da briganti e ladroni che scorazzavano tra
queste valli. Ospitava più di cento abitanti che campavano di agricoltura e
allevamento del bestiame.
Purtroppo gli edifici che compongono la contrada non sono in
buono stato e lo dimostra il crollo di alcuni tetti delle stalle e la
“prevalenza della natura” negli orti che fornivano buona parte
dell’alimentazione ai residenti di un tempo.
La contrada è composta di un corpo centrale che si affaccia
su un piccolo pianoro. Ai lati alcune stalle, queste ormai in rovina, e la
presenza, sia pure saltuaria e, probabilmente in periodo estivo, di alcuni
proprietari è evidenziata da gerani esposti vezzosamente qua e là.
Un particolare ha attirato la mia attenzione: una serie di
finestre che sovrastano un ingresso e fanno pensare a un vano scale che conduce
ai piani superiori. La mancanza delle scale mi aveva incuriosito, durante le
precedenti visite. La spiegazione l’avevo avuta da un conoscente che
trascorrendo l’infanzia dalla nonna residente
in contrada, mi aveva raccontato la seguente versione:
“ Per evitare di essere sorpresi di notte da
malintenzionati, le camere da letto erano tutte sistemate nei piani superiori.
Per accedervi, nel “vano cieco” era posta una scala a pioli che a sera, dopo
che la famiglia si era ritirata per dormire, era ritirata dall’alto e,
conseguentemente impediva l’accesso agli intrusi.”
Alcuni “maliziosi” aggiungono che con questo metodo si
evitava anche che gli spasimanti delle numerose “fanciulle” presenti in
contrada potessero far visita alle loro amate senza essere controllati dai genitori
delle ragazze.
Metodo elementare di sicurezza contro le “sorprese notturne”.
Continuando i nostri quattro passi, Gabriella ed io ci
dirigiamo verso la contrada del Grensolino (in dialetto Öl Grensölì), sul
versante opposto con vista dell’Alben.
L’erba è alta e non si vedono tracce di sentiero. Lo scorso
anno, accompagnati dai gestori della Fattoria didattica Ariete di Gorno,
avevamo fatto lo stesso percorso alla scoperta delle erbe spontanee e il
sentiero era evidente. Quest’anno, purtroppo, no!
Procediamo con prudenza tra l’erba alta che non permette la
vista del terreno sottostante. Oltretutto il prato è discretamente scosceso e
consiglia molta attenzione.
Superato il dosso erboso, più a valle compaiono le case
sparse della contrada.
Diversamente dalla Cà di Rés, öl Grensölì, non è costituito da un unico grosso
agglomerato ma da casolari e stalle sparpagliate tra i prati esposti al
sole. Le abitazioni esistenti sono ben
mantenute e, in alcuni casi, ristrutturate per il soggiorno estivo di qualche
proprietario.
Solo alcuni muri e ingressi di vecchie stalle testimoniano
il passato. Una santella ricorda la devozione di chi risiedeva e lavorava tra
quei verdi e assolati prati.
Una strada sterrata, costruita recentemente dai proprietari
dei terreni, collega la contrada con Zambla Bassa e permette di raggiungerla
con autoveicoli e mezzi meccanici atti all’agricoltura. Se il progresso ha
permesso un miglior sfruttamento della zona, dall’altra parte ha fatto perdere
il “fascino” del passato che ancora mantiene la Cà di Rés.
Ma la montagna, per sopravvivere, deve continuamente fare i
conti con il presente e il futuro sia pure senza dimenticare ciò che è stata e gli
insegnamenti che ci ha dato.
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Una vecchia
guida del Cai
Tra i vari
libri, opuscoli, cartine topografiche di montagna della mia libreria, conservo
un Diario dell’Alpinista del Cai - Sezione U. Tavecchi di Bergamo appartenuta a
mio padre datata 1930.
In una
pagina dedicata alle “ascensioni compiute”, figura il timbro del Rifugio “Casa
Pio XI – bocchetta di Trona, Premana - Valsassina”.
L’ebbi in
regalo nei primi anni cinquanta, quando accompagnavo mio padre nelle escursioni
durante i soggiorni di vacanza a Cusio. Mi raccontava le sue escursioni sul
Pizzo dei Tre Signori, sul Trona, sulla Presolana descrivendo passo dopo passo
i sentieri che percorreva e le particolarità naturali che aveva incontrato.
Mi fece
amare la montagna.
Nel Diario
sono comprese undici cartine topografiche che comprendono l’intero arco alpino
partendo dal Col di Tenda sino a Caporetto, oltre all’elenco delle Sezioni Cai
e dei vari Enti che possedevano rifugi completato dall’elenco alfabetico dei
Rifugi stessi.
La parte più
interessante è quella che specifica dettagliatamente, rifugio per rifugio, il
numero degli alloggi, i depositari delle chiavi, le località di accesso,
comprendente il mezzo pubblico con cui raggiungerle, le ore di marcia e le
principali ascensioni dal rifugio segnalato.
Da questo
elenco si poteva ricavare, ad esempio, che per raggiungere il Rifugio Curò era
necessario raggiungere Ponte Selva con il treno, utilizzare (ma questo non lo
specifica) un altro mezzo per raggiungere Bondione e, con due ore e mezzo di
cammino su mulattiera, arrivare a destinazione. Interessante conoscere che nel
1930 il tenutario delle chiavi del rifugio si chiamava A. Simoncelli di
Bondione.
Scorrendo l’elenco
dei rifugi di quel tempo, si può notare che alcuni sono scomparsi (distrutti in
rappresaglie di guerra) e sono stati ricostruiti in altra posizione, altri
hanno cambiato denominazione o sono stati completamente rifatti con tecnologie
più moderne.
Anche sfogliando
un piccolo e semplice Diario di oltre ottant’anni fa, si può intuire quanto, in
questo lasso di tempo, si sia modificato l’ambiente e la vita di montagna, dei
suoi abitanti e degli appassionati che la frequentano.
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Una domenica pomeriggio
Sangalli,
Sangalli… sento una voce femminile che mi chiama.
E’ quella di
una signora, vecchia villeggiante di Zambla (non si offenda la signora per
l’aggettivo, ma indica unicamente l a sua presenza nel luogo di villeggiatura)
che con il marito e i nipotini è seduta a un tavolino del Centro Parrocchiale.
I nipotini
di Mila, questo il nome della signora che mi chiama, assieme a tanti altri
bambini, sono immersi nei giochi dei “gonfiabili” sistemati sul piazzale antistante
al Centro.
Mi avvicino
e ricevo i complimenti per le mie divagazioni pseudo letterarie che pubblico su
Facebook. Mi dice che legge con interesse i miei racconti e si rammarica che i
ragazzi del giorno d’oggi ignorino le vecchie tradizioni e non abbiano la
fantasia che noi, alla loro età, eravamo costretti a utilizzare per giocare e divertirci.
Il marito
dice che stanno leggendo un giallo, di un autore tedesco, ambientato a Milano,
zona Piazzale Loreto e dintorni negli anni ’70, e poiché in quella zona hanno
vissuto molti anni, si ritrovano nelle descrizioni di quegli anni.
Le prometto
di regalarle un libretto “I racconti del nonno”, nel quale ricordo la mia
infanzia nel dopoguerra e la vita che gli altri ragazzi della mia età
conducevano senza incorrere nelle limitazioni e nei pericoli che oggi sono
costretti a subire in nome della “salvezza della specie”.
Si avvicina
anche Gabriella, mia moglie, e le “nonne” iniziano una disquisizione sui
rispettivi nipoti e sui loro comportamenti scolastici. Nonne che conservano il
buon senso dei vecchi tempi e si fidano delle esperienze vissute.
Con la
promessa di ritrovarci Gabriella e il sottoscritto, continuiamo la passeggiata
lungo la via principale della frazione.
Dopo esserci
soffermati con altri amici e conoscenti, in maggioranza nonni e nonne con
nipotini al seguito, e aver scambiato convenevoli e le notizie della giornata,
incontriamo Valerio che c’invita a visitare la sua stalla e i tre cavalli che
li ospita.
Sopra la
stalla, Valerio, ha ricavato un locale accogliente, rivestito con perlinatura di
legno e con le indispensabili comodità per ricevere gli amici- Preferiamo
sederci all’aperto mentre i cavalli si avvicinano alla staccionata chiedendo
con sbuffi e soffiate e con gesti del capo molto eloquenti, lo zuccherino di
cui sono golosi.
Davanti ad
bicchiere di acqua fresca e dissetante (Gabriella preferisce il the), parliamo
della Conca e della fatica che un amministratore pubblico deve mettere in conto
per mantenere, e possibilmente migliorare, la vita della comunità tra
limitazioni finanziarie e personalismi tipici della gente di montagna.
Quanta
differenza esiste con il contenuto della novella del Verga titolata “La roba”?
Diversa la latitudine ma la psicologia umana è la stessa.
Valerio ci
fa notare un bellissimo cespuglio di “piretro” fiorito. Una macchia bianca che
i cavalli si guardano bene da toccare. A Gabriella quel nome ricorda una poesia
del Carducci, (deformazione professionale), ma è solo un parziale accostamento
di termini. (Il termine contenuto nella poesia “Piemonte” del Carducci era
“piropo”).
Nell’orto,
sotto la stalla, sono maturati gli zucchini e Valerio ce ne offre alcuni con la
gioia di Gabriella: domani zucchine trifolate e fiori di zucchino in pastella.
I rintocchi
delle campane ci avvertono che sono le diciannove e che gli ospiti, come il
pesce, dopo un certo tempo, iniziano a puzzare. E’ tempo di rientrare e
preparare la cena e lasciare a Valerio il compito di dare la biada ai suoi
impazienti e curiosi cavalli che dall’altra parte della staccionata
continuavano a osservarci tra il nervoso scalpitio e gli sbuffi impazienti.
Anche per loro è giunta l’ora di cena.
Una leggera
brezza ci accompagna mentre facciamo il sentiero a ritroso per tornare a casa.
Una domenica
pomeriggio tra amici.
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Tra i casolari di Zambla Bassa –
Contrada Vallomi
Il “gabe” che sostituì il dentista.
In questi
giorni le condizioni meteo non sono propizie a lunghe camminate. Sia il mattino
sia il pomeriggio improvvisi rovesci temporaleschi limitano la possibilità di percorrere
tratti che vadano oltre le due ore di tempo.
Decido,
pertanto, di visitare alcuni vecchi casolari che circondano la frazione di
Zambla Bassa, tra pascoli e boschi.
Scendo in
Contrada Vallomi situata in una valletta collegata a Zambla Bassa da una
mulattiera ripida e rovinata dallo scorrere dell’acqua durante i temporali. Per
questo motivo la discesa è poco agevole e consiglia molta attenzione. Sul fondo
della valletta un ponticello mi conduce sul versante opposto, dove insiste il
casolare chiamato dai vecchi residenti “la Cà di Prec”.
Nel
torrentello che scorre sotto il ponticello, aveva trovato sede una condotta in
cemento nella quale confluivano le acque nere di scarico delle sovrastanti
abitazioni. Nel tempo alcuni tratti della condotta si erano rotti con la
conseguente uscita del liquame. Le sollecitazioni all’Amministrazione Comunale
volte a eseguire le necessarie riparazioni erano cadute nel vuoto e la
preoccupazione che si potessero verificare situazioni pericolose per la salute
di residenti e villeggianti era molto sentita.
Il
quattordici agosto del 2008 mi decisi a inviare un “esposto” alla Procura della
Repubblica di Bergamo, e, per conoscenza, al Responsabile ASL di Bergamo,
Ufficio Igiene Pubblica e, nella sua funzione di ufficiale sanitario del Comune,
al Sindaco di Oltre il Colle, denunciando la situazione. La riparazione che ne seguì non risolse
definitivamente il problema e si dovette attendere il 2015 con i lavori,
effettuati da Uniacque, per il rifacimento del collettore fognario di Zambla
Bassa.
Tornando
all’origine di questo scritto, il casolare si presenta con una struttura
sufficientemente ampia da poter ospitare numerose famiglie. Accanto al corpo
centrale sono situati i fienili e le stalle che ospitavano le mucche al ritorno
dalle malghe in autunno. Non manca, di fronte, lo spazio per l’orto e, poche
decine di metri prima dell’ingresso, una fontana, con la volta in pietra, per
attingere l’acqua e per abbeverare il bestiame proveniente dalla sorgente
locale.
Il fronte
del corpo centrale dell’abitazione testimonia un passato di prestigio con un
portale in pietra ben conservato e un balconcino, che lo sovrasta sempre in
pietra e arricchito dalla balaustradi ferro, forgiata a mano.
Alla base
del portale le due pietre conservano, ciascuna, un bassorilievo raffigurante
dei simboli e sulla sommità una lapide ricorda che il vecchio proprietario: “Gio
: Giacomo Valle” la restaurò nel 1890 (l’ultimo numero della data è poco
leggibile). Sul portalino, sempre in pietra e ben conservato della stalla,
accanto, su un’altra lapide è incisa la data 1802.
In buona
sostanza una contrada “autonoma” tanto da poter ospitare, anche nel periodo
invernale, i proprietari e i famigli.
Ho chiesto a
Luigi Scolari, che tempo addietro possedeva una porzione del fabbricato, se
conoscesse le origini del nome “Cà di Prec”. Risponde che molto probabilmente
qualche abitante della contrada aveva vestito l’abito talare. Ma non sa dirmi
di più.
Sergio
Fezzoli, poeta e storico di Oltre il Colle mi racconta un aneddoto: «Nella “Ca
di Prec” abitava una donna che soffriva di dolore a un dente. Era decisa a toglierlo ma, per avarizia, non
voleva ricorrere al medico. Ebbe un’idea: si
affacciò sul balconcino posto sopra l’ingresso della casa, legò il dente a un
capo di una cordicella e, l’altro capo, al “gabe” (gerla per portare il fieno) che lasciò penzolare dal
balconcino e che faceva muovere con un leggero dondolio.
Un’altra donna
che si stava recando nella stalla per portare il foraggio alle mucche, vedendo
il “gabe” penzolare lo prese con uno strattone, pensando a una burla da parte
dei ragazzi e assieme al “gabe” strappò il dente alla disgraziata che dal
balcone emise un grido di dolore.
La storiella
fece il giro del paese tra le risate della gente.»
Storielle
che solo Sergio racconta, seduto su una balla di paglia, tra il divertimento
dei “foresti” che, attenti, lo ascoltano.
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Una serata
di mezza estate
I cavalli
nella stalla, posta nella valletta sotto casa, battono nervosamente gli zoccoli
sullo sterrato: prevedono l’arrivo di un temporale oppure sono semplicemente
infastiditi dalle noiose mosche.
Il cielo,
verso l’Arera mostra una schiarita ma tutt'attorno nuvole scure si addensano.
In lontananza scorgo le luci del campeggio e di qualche casolare sulla strada
per la Plassa.
La strada
sotto casa è deserta, in montagna si cena presto e altrettanto presto ci si
corica. Qualche auto di villeggianti si dirige verso il capoluogo anche se, per
stasera, non è prevista alcuna manifestazione estiva.
Una rondine
passa velocemente sopra la mia testa: ricordo gli anni in cui il cavo dell’Enel,
teso tra un palo e l’altro, era occupato da decine di bisbetici rondoni che, a
turno, si alzavano in volo e dopo un paio di giri in cerca d’insetti tornavano
ad appollaiarsi l’uno accanto all’altro continuando a cinguettare.
Anche loro
probabilmente discutevano di “tempi duri” e di programmi d’espatrio.
I cavalli
continuano a scalpitare.
Dal terrazzo
della camera vedo le case di Zambla Alta illuminate, sembra l’immagine di un
presepe in versione estiva.
Ora le
nuvole si sono addensate sul Grem. Sono basse e impediscono la vista della Cima.
A tratti, sopra quella coltre che m’impedisce la vista del sorgere della luna,
appaiono dei bagliori: sono lampi lontani, verso la Valle Seriana o, forse,
ancora più lontani. Sono seguiti da un impercettibile brontolio del tuono che
li succede.
I cavalli si
sono chetati. Anche loro, come i montanari, si staranno riposando.
PS: Nella notte è piovuto, i cavalli sono meglio dei meteorologi.
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Ol Batistì
Lo vedo
passare tutte le mattine, si aiuta con due bastoni ma con passo sicuro, sempre
accompagnato da qualcuno. La strada che conduce al piccolo camposanto di Zambla
è in salita ma il Battista, Batistì per tutti, classe 1916 la percorre con
decisione: va a porgere il buongiorno a sua moglie Beniamina, scomparsa due
anni orsono. Da casa sua al camposanto sono poche centinaia di metri, sebbene
ripidi.
Da fiatone
anche per i più giovani.
Battista
Tiraboschi è il decano di Zambla bassa, il 16 aprile ha compiuto cent’anni ed è
ancora lucido di mente. Era il quinto di dodici figli, tempi di nidiate e di
braccia funzionali al lavoro e alla sopravivenza familiare.
Infatti, racconta che a soli otto anni
lavorava nelle miniere nella zona del “Pésel”, sotto il monte Vetro: teneva i
sacchi aperti mentre i minatori li riempivano di materiale. A nove fu addetto
alla sorveglianza delle mucche sui pascoli del Grem; a tredici svolse il lavoro
di carbonaio in val Urtighera e, a diciotto, scese in miniera.
Nell’aprile
del 1940 fu richiamato dalla naja per combattere prima lungo la frontiera
austriaca poi su quella Jugoslava e sul Monte Nero.
Rientrato in
Italia e reimpiegato in miniera per necessità belliche, conosce Beniamina, una
taissina, con la quale si unirà in matrimonio nel 1943. Un matrimonio che
durerà per ben settantuno anni.
Di quella
nidiata di tredici fratelli rimangono ancora Teresa novantaseienne e Luigi,
novantenne, gli ultimi di una famiglia rocciosa, degni della montagna sulla
quale sono nati e cresciuti.
Alcuni anni
orsono, partecipai alla festa del Rifugio Maga, sul Menna. Ero reduce da una
settimana trascorsa nella zona del Gran Paradiso, da Cogne a Rhémes Notre Dame
passando dai rifugi Sella, Chabod, Vittorio Emanuele, città di Chivasso al Nivolet
e, con il precedente “allenamento”, salendo mi sembrava di volare.
Arrivato al
rifugio, prima di salire in vetta al Menna, mi ero fermato per dissetarmi.
All’ingresso incontrai il Battistì che mi aveva preceduto e si stava informando
sull’ora del pranzo: era già ottantenne e, osservandolo, non dimostrava alcun
affaticamento, vecio alpino! Eppure molti suoi coetanei e anche molto più
giovani di lui avevano usufruito del trasporto in elicottero.
Ancora oggi,
vedendolo salire al camposanto, pur aiutato dai due bastoni, ha il passo fermo
e cadenzato del montanaro.
Vuol
attendere i festeggiamenti per il centesimo compleanno della sorella Teresa e,
perché no, anche del fratello Luigi.
Auguri Battistì
!
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Quattro passi nel silenzio.
Oggi ho
fatto “quattro passi”, si fa per dire!
Ho camminato
due buone orette lungo un sentiero che costeggia alcuni casolari del monte di
Zambla.
Tutti
rimessi a nuovo con pietre a vista, tetti rifatti, antoni di porte e finestre
riverniciati e tanti gerani sui piccoli balconcini.
Il rumore di
un trattore, in lontananza interrompeva, a tratti, il silenzio che mi
circondava. Le siepi di lamponi, maltrattate dai recenti temporali, erano, qua
e là, punteggiate dai piccoli frutti ancora acerbi. Nessun cardo o fiori
spontanei.
Solo il
silenzio.
Camminando
pensavo a quando quei cascinali erano abitati tutto l’anno dalle famiglie di
contadini. Ragazze e ragazzi che giocando si rincorrevano sulle balze erbose,
donne e uomini affaccendati a falciare l’erba per riempire i fienili sopra le
stalle. Qualche muggito di mucca il suono del campanaccio appeso al collo
avrebbe rotto il silenzio pomeridiano.
Oggi no,
tutto è silenzioso. Sempre, e a tratti, il ronzio lontano del trattore. Null’altro.
Mi sono
fermato al termine del sentiero, al limitar del bosco di conifere.
Di fronte la
valle del Parina e il massiccio granitico dell’Arera.
Seduto su
una panca improvvisata, mezzo tronco tagliato e appoggiato su due sostegni, ho
guardato la vetta e intravvisto la croce. Quante volte sono salito su quell’erta
rocciosa e l’ho toccata con la mano: era come giungere al traguardo e tagliare
il nastro dell’arrivo.
Ho intravisto
il piccolo rifugio della Saba, una macchia rossa tra le querce maestose risparmiate
dai fulmini che spesso le colpiscono. Sentinelle, ultimo baluardo arboreo prima
dei pascoli. Sembrano resti preistorici che testimoniano un passato ormai
lontano.
Ho bevuto un
sorso d’acqua, ho fatto qualche fotografia al cascinale e sono tornato
Sempre in
silenzio, nel silenzio.
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Vado a curiosare al Colle di Zambla dove
hanno organizzato la “Festa di Balòch”, tra bancarelle con i prodotti tipici
della valle e con i giochi “campestri” per i bambini: corsa nei sacchi, corsa
con le uova, il palo della cuccagna e tanta allegria. Il prato, utilizzato
nella stagione invernale come partenza per l’anello di sci di fondo dell’Alben
è stracolmo di gente.
Seduto su una balla di paglia, in mano un
microfono, trovo Sergio Fezzoli che racconta tradizioni e leggende della Conca
di Oltre il Colle. Racconta le origini dei sopranomi degli abitanti delle varie
Frazioni della Conca; Balòch di Zambla Alta, Boase di Zambla Bassa, Chisòi di
Oltre il Colle e Cavrécc di Zorzone.
Ottantadue anni ben portati, la voce un
poco lenta ma chiara e ferma, il più anziano degli Istruttori di sci della Valle Serina m’introduce nella sua vita
di montanaro, con l’amore e la passione di chi ha vissuto e vive la permanenza
in un ambiente bello, a volte esaltante, spesso duro e faticoso.
Sergio Fezzoli, dopo il servizio militare,
ovviamente nel corpo Alpini, e dopo aver trascorso tre anni come emigrante in
Svizzera, torna nella sua Valle Serina e si adatta a tutti i lavori possibili:
contadino, boscaiolo, muratore e minatore per ben quindici anni nelle miniere
di calamina dell’Arera.
Istruttore di sci di fondo per il locale
sci club, la sua grande passione, ha insegnato a piccoli e grandi le tecniche
di questo sport sulle piste del complesso dell’Alben ed ha partecipato a
numerose competizioni anche di alto livello. Per molti anni questa passione lo
porterà a insegnare lo sci di fondo sui pendii nevosi dell’Engadina, dal Maloja
a Sils, Sant Moritz, Pontresina e Samaden. Nel millenovecentosessantaquattro è
co - fondatore della delegazione del Soccorso Alpino di Oltre il Colle.
Ma la sua grande passione rimane la poesia
dialettale e ne fanno fede le numerose pubblicazioni tra cui “Sotaùs”
(Sottovoce) e “Tochèi de étà” (Pezzi di vita) e l’ultima pubblicazione in
ordine di tempo “Tép de öna ölta e de’ ncö” (Tempi di una volta e di oggi”.
Spesso, chiamato a partecipare alle
manifestazioni locali, declama a memoria molte delle sue opere e non solo;
mentre ci scambiavamo opinioni e ricordi sulle poesie dialettali bergamasche e
citato alcuni dei nostri poeti bergamaschi mi ha citato a memoria una di
Bortolo Belotti.
Ho acquistato il suo ultimo libro e nella
dedica, che ho voluto, dopo le solite frasi e sotto il disegno stilizzato del
cappello d’Alpino ha scritto: “Sò mé chè va öle bé” (Sono io che vi voglio
bene).
Beh, direi che gli ottantadue anni suonati
sono ben portati.
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